Vaghe stelle dell'orsa
Antonia Arslan
Nella mia classe di liceo eravamo tutti affascinati dal professore di greco e latino, un fuoriclasse che aveva scelto di insegnare agli adolescenti invece di continuare una carriera accademica brillantemente iniziata.
Quello di italiano ci piaceva molto meno: aveva idee fisse, si annoiava a scuola, sbadigliava con gusto un po’ troppo spesso. Il suo più grande difetto era tuttavia per me il suo scarso senso della poesia, del ritmo della poesia. Ci spiegava Dante con precisione, ma senza alcun entusiasmo, citando versi (magari bellissimi), note e interpretazioni con voce sempre uguale, come incartasse salami (con alcune perfide amiche ci eravamo concentrate sulle sue mani a salsicciotto, «quanto di meno poetico – sentenziò Franca – esista sulla faccia della terra»). Noi leggevamo per conto nostro, mettendo una punta di disprezzo nel sottovalutare quello che lui ammirava e nell’apprezzare quello che lui sottovalutava. Cercavamo così di imitare la classe che ci precedeva, che aveva inventato una mossa crudele: quando lui entrava in classe, si trovava davanti le schiene degli studenti, coi banchi voltati verso il muro; quando ritornava furibondo, accompagnato dal preside, i banchi erano raddrizzati, per cambiare di nuovo direzione appena i due uscivano...
Ci imponeva di imparare a memoria poesie faticose, come l’ode All’Italia del primo Leopardi, scritta da un ventenne invasato di classicità e di eroismi; e fu questa imposizione che più tardi divenne per me un chiaro esempio di eterogenesi dei fini, perché nonostante il testo grondasse di baldanzosa retorica e di termini antiquati, che sembravano a volte usati come clave, il ritmo dell’endecasillabo e del settenario scorreva limpido e persuasivo, trascinando con sé la prima immagine di una bellezza poetica che premeva già per emergere. Tutti conosciamo la vita del giovane Giacomo, fisicamente fragile ma immerso eroicamente in uno studiare «matto e disperatissimo»; ma mi commuoveva in modo particolare l’idea che con la sua ode all’Italia lui volesse gareggiare con Petrarca e si spremesse la mente per scriverla, mentre nel frattempo la sua tenera indole di adolescente nobile ma bruttino e solitario, confinato in un borgo sconosciuto, lo portava a dolcemente sognare della ragazzina Silvia, che sarebbe poi morta tanto precocemente. Avrei voluto battergli sulla spalla e dirgli: «Concentrati su di lei, rubale un bacio»; ma forse lui mi avrebbe risposto: «Preferisco la gloria...» e io forse gli avrei dato ragione – dalla distanza dei secoli che ci separavano – dato che oggi tutti davvero conosciamo il suo nome.
E con quale lontana ma profonda amicizia avrei poi seguito – e amato – l’oscura passione della sua vita incerta, eppur sempre in fondo sicura di sé, le bizzarrie e le bramosie del suo carattere e dei suoi malesseri, l’acuto filosofare che non lo consolava, il riposato aprirsi all’improvvisa voce del ritmo e del canto ai quali finalmente abbandonarsi con mano sicura, nel gioco tremendo dei versi. «Vaghe stelle dell’Orsa»; «Silvia rimembri ancora», tu piccola Silvia dagli occhi «ridenti e fuggitivi»; «O graziosa luna, io mi rammento». La gioia di essergli vicina imparando a memoria questi fulgidi attacchi, porte d’oro che mi conducevano a immergermi nel fluire pacificante del mondo della poesia.