Una chiesa ecumenica è possibile
di Mario Botta
A Friburgo in Brisgovia (Germania), in una zona del nuovo quartiere di Rieselfeld, attorniato da un’edilizia eterogenea e senza particolare qualità, un ampio isolato è stato scelto per la costruzione della chiesa di Santa Maria Maddalena (2002-2004), un singolare edificio di culto che in un unico volume accoglie due chiese, una protestante e l’altra cattolica.
Non conoscendo le traversie teologiche, funzionali e comunitarie che hanno portato a questo progetto dello studio Kister-Scheitauer-Gross, ci limiteremo a osservare unicamente come si presenta il manufatto architettonico, che sembra un ulteriore esempio di un processo ecumenico che dopo decenni di proclami non riesce ancora a concretizzarsi in realizzazioni particolarmente convincenti.
Il primo sguardo lo riserviamo alla planimetria del piano terra (l’edificio ha quattro piani), semplice e chiaro nelle distribuzioni funzionali, dove un insieme inscrivibile in una configurazione rettangolare viene ripartito longitudinalmente in tre settori allungati – come fossero tre navate irregolari – con al centro uno spazio utilizzato come foyer di sosta e ai lati le aule assembleari per le comunità – protestante e cattolica –, ognuna con i propri spazi di servizio. L’interesse di questa proposta è nel modo in cui vengono distinti i due ambiti spaziali e funzionali delle confessioni, che a prima vista appaiono come attività separate. Il “miracolo” dell’unificazione ecumenica avviene con lo scorrimento su appositi binari delle pareti mobili interne che, celandosi in appositi interstizi, trasformano lo spazio tripartito in un’unica aula assembleare per i fedeli. Una soluzione tecnica e spaziale ingegnosa che permette il controllo formale – prima e dopo la trasformazione – dello spazio che aveva la primitiva funzione di atrio-corridoio e che diventa così la parte centrale del nuovo spazio ecumenico. Questo richiede ovviamente, di volta in volta, il riordino degli arredi liturgici (altare, ambone e cattedra), ma lascia intatte le pareti perimetrali (con suppellettili, oggetti, statue e dipinti) che possono continuare a testimoniare le specifiche identità confessionali anche nel grande spazio ecumenico. Il linguaggio architettonico sembra invece più incerto e approssimativo nel disegno dei raccordi fra le differenti parti e nei “collages” tra i collegamenti verticali (scale) e le zone di servizio.
Di questa semplice tipologia ecumenica, che accoglie con pari dignità le due confessioni, abbiamo apprezzato la bella soluzione spaziale interna, al piano terra, che presenta una doppia altezza, con le lame strutturali in calcestruzzo, l’innesto delle travi in legno del soffitto e soprattutto la generosa luce zenitale che inonda le pareti perimetrali. Per contro, l’immagine esterna di questo edificio – che nella città dovrebbe acquisire la dignità di chiesa – non fa altro che consolidare un atteggiamento purtroppo diffuso e alla moda fra le élite intellettuali e di gran fascino per le nuove generazioni, che interpreta l’opera di architettura come un oggetto autoreferenziale e ignora il contesto (della città o del paesaggio) in cui s’inserisce.
Un vero dramma per l’architettura stessa e uno smarrimento totale per noi europei, nati e cresciuti negli interstizi delle nostre città.