Un viaggio in Caucaso dove la guerra non è solo un ricordo
Quanto siamo determinati dal nostro passato, da quello che abbiamo vissuto, visto, gustato? Io credo che ogni nuova esperienza o avvenimento che ci tocca venga in realtà filtrato e modificato dal deposito dei nostri ricordi, come da una lente incorporata che si sovrappone ai nostri occhi e ci indirizza (o meglio: ci influenza) spesso senza che ce ne accorgiamo. La guerra, la Seconda guerra mondiale. È molto diverso parlarne o averne sperimentato la presenza reale, che incombeva sugli adulti ma che i piccoli percepivano come un’ombra maligna, diffusa, pesante, a cui non si poteva sfuggire: c’erano i posti di blocco da evitare e i soldati dispersi, i tedeschi che interrogavano e requisivano (e ogni bambino imparava presto a tacere), gli inconsueti – e temibili – rumori, dal sordo rombo massiccio delle fortezze volanti al suono leggero e ovattato del pericoloso aereo da ricognizione notturno, il celebre Pippo che faceva cadere una sola bomba, ma non si sapeva dove, e girava girava su in cielo per ore facendo impazzire la gente. E poi la ricerca del cibo, la luce degli incendi…
L’anno scorso, proprio nel mese di aprile, sono stata nel Nagorno Karabakh, la piccola repubblica situata sulle montagne del Caucaso contesa fra Armenia e Azerbaigian. Verdi distese di prati bordate da fitte foreste; rari villaggi e splendidi monasteri antichissimi; castelli di fiaba e querce millenarie, sotto le quali potrebbero sostare Carlomagno e i suoi prodi, come nelle antiche canzoni francesi; croci di pietra e mucche imponenti che pacificamente attraversano la strada. Abbiamo sostato nella mitica “Locanda del Cacciatore”, con le pelli di orsi e cinghiali appese in giro o stese sotto i piedi. Tutto contribuì a darci un’impressione di serenità coraggiosa. Sapevamo, certo, che il Paese era appeso a un armistizio spesso violato, che le trattative di pace erano state interrotte più volte, che quel piccolo lembo di terra montagnosa popolato da armeni era stato attribuito all’Azerbaigian da Stalin – allora plenipotenziario di Lenin per gli affari caucasici – negli anni della nascita dell’Unione Sovietica, e ora rivendicava l’indipendenza; sapevamo che vent’anni fa il conflitto era stato violento e sanguinoso.
Eppure non sembrava un Paese stressato: ci persuasero e commossero la spontanea ospitalità della gente, il sorriso fiducioso dei numerosi bambini e delle mamme vestite di colori squillanti, la percezione di un’autonomia che era anche una scelta coraggiosa e cosciente, il pacato discorrere in amicizia davanti a un tè principesco, i chiari panorami della piccola capitale Stepanakert, la bellezza del luogo degli scavi che visitammo all’imbrunire di un giorno colmo della magica luce degli altopiani. Avremmo voluto restare, condividere la vita di quella gente fiera e gentile. Ma in questi giorni la guerra è scoppiata di nuovo. Le notizie si accavallano. Truppe azere oltre il confine, elicotteri e carri armati; la scuola di un villaggio colpita; si cominciano a contare i morti… La mia mente si appanna di angoscia, come ogni volta che penso alla Siria della mia giovinezza, ai campi dorati dell’Anatolia da cui fummo scacciati, o alle bombe su Padova nel 1945. Eppure la calda vita, mi dico, sempre combatte la morte – e riesce, ostinata, a sopravvivere.
di Antonia Arslan