Un vaporetto a Venezia e il coraggio di zia Francesca
Antonia Arslan
Mi telefona giorni fa Anna, cara amica, giornalista esperta e di fine intelletto, e mi dice che vuole farmi vedere qualcosa che spera mi interesserà. Il suo tono un po’ sospeso mi incuriosisce molto, mi piacciono le sorprese vere, quelle che non si riescono proprio a indovinare.
Il giorno dopo viene a trovarmi e mi porta il libro che ha scritto con una collega, Silvia, che ha condiviso con lei la scoperta – al cimitero di San Michele in Isola a Venezia – di una misteriosa lapide che le ha spinte a una lunga e difficile ricerca su un dimenticato ma gravissimo incidente che coinvolse un vaporetto in laguna il 19 marzo 1914, poco prima dello scoppio di quella che fu poi chiamata la “Grande Guerra”. Fra le vittime c’erano anche due donne inglesi, Sarah e Janet Drake, che poi la famiglia volle sepolte appunto a San Michele. Anna mi racconta di come il vaporetto delle 17,10 – in servizio dal Lido ai Giardini – quel giorno fu colpito dallo sperone di una torpediniera e affondato in brevissimo tempo, dei morti e dei sopravvissuti, dell’enorme impressione che fece quella tragedia, ma anche della precisione rispettosa e partecipe con cui i giornalisti dell’epoca scrissero sulle persone che vi furono coinvolte.
In quel preciso momento io la interrompo: «Ma questa è la storia della nonna-zia!». Perché io l’ho sentita raccontare tante e tante volte dalla contessa, Francesca Mozzetti Monterumici, la sorella più piccola di mia nonna Antonietta de Besi, morta di mal di cuore nel 1943. Lei viveva a Venezia, ma andava spesso dalla figlia Maria Teresa, che stava poco lontano da noi, e veniva a trovarci la sera prima di cena. Faceva la sua passeggiata igienica. Calzava un buffo cappellino nero con una piuma di lato, e arrivava agitando con eleganza il bastoncino e salutando chiunque incontrava. Si sedeva su una comoda poltroncina e ci raccontava favole, novellette, episodi di vita vissuta, sempre col cappello in testa e con una deliziosa, fantastica capacità di tenerci avvinti, tutti e cinque, fino a dimenticare la cena. La piuma nera seguiva i suoi movimenti come approvando.
Noi eravamo assetati di storie. Mamma Vittoria non aveva pazienza, e l’altra nonna, l’austera Virginia, ne conosceva solo una, la famosissima “Storia del Gatto Mammone”, che ci piaceva e sapevamo tutti a memoria. Invece, nonna-zia Francesca ne aveva sempre di nuove; ma l’unica che conoscevamo benissimo, anche se ogni tanto le chiedevamo a furor di popolo di raccontarcela di nuovo, era quella del vaporetto, di come lei ce l’aveva fatta a non restare sommersa dal vortice, scalciando via le scarpe e il mantello e la borsa e nuotando con eroica energia.
«Perché io sapevo nuotare benissimo – ripeteva ogni volta con comprensibile orgoglio –, avevo imparato proprio al Lido, mentre le mie amiche chiacchieravano come oche». Si capiva che la nonna-zia era convinta di non essere un’oca: e d’altronde, diceva sempre papà che l’amava moltissimo, con toni vagamente sibillini, «con la vita difficile che ha avuto, solo il suo coraggio e il suo spirito l’hanno salvata».
Ma Anna la conosceva la sua storia, era nei giornali dell’epoca. E in quel momento lei sorrise: ci guardammo, e ci sentimmo unite da un legame profondo di sottile, grato riconoscimento e di amicizia affettuosa e consapevole.