Un pomeriggio di giugno in Santa Maria del Popolo
Fu molto faticoso attraversare la grande piazza romana, in quel pomeriggio di fine giugno. Era tutta transennata – carabinieri da una parte, polizia dall’altra – e appena passato il primo sbarramento ci trovammo immersi in un girone dantesco. Per terra, un tappeto di lattine schiacciate, laghetti di liquido dall’aria sospetta, un serpentone di ragazzi sudati che premeva verso l’enorme palco dove stava per cominciare un concerto. Eravamo sotto un sole carezzevole e il cielo era di smalto azzurro, mentre un vento leggero faceva turbinare cartacce unte e rotolare lattine. Due robusti infermieri dall’aria annoiata avevano srotolato per terra una barella e vi stavano distendendo una ragazzina seminuda, pallidissima sotto il trucco pesante. I suoi compagni guardavano indifferenti.
Poi finalmente arrivammo alle gradinate di Santa Maria del Popolo, quell’angolo di piazza stretto all’antica porta che ricordavo raccolto, simile ai pittoreschi acquerelli romani dell’Ottocento. Erano piene di turisti in attesa di entrare, abbandonati sugli scalini come i pellegrini di una volta. I due famosi quadri di Caravaggio nell’ultima cappella della navata di sinistra, san Paolo caduto da cavallo e san Pietro crocifisso a testa in giù, sono una tappa obbligata del tour romano.
Ma io volevo soprattutto rivedere la chiesa, quelle statue affacciate dall’alto su ogni arcata della navata centrale, come un corteo di persone di marmo che ti accompagna fino all’altare, confidenti ma irraggiungibili, fissate per sempre in un momento di vita e portate alla presenza di Dio. Così entrai subito: le navate laterali erano chiuse, e in quella centrale si stavano celebrando un matrimonio e – mi accorsi poi – anche un battesimo. I banchi erano gremiti di gente in abiti eleganti: le donne in lungo, rivestite di sete colorate e luccicanti drappeggi, gli uomini in rigide camicie bianche, con le giacche sul braccio.
Noi stavamo in fondo alla chiesa, vicino a un’acquasantiera. E fu allora che notai dall’altra parte un gruppo di donne più giovani arrivate in ritardo, con gonne cortissime, ampie scollature, collane e braccialetti tintinnanti, altissimi tacchi, che chiacchieravano disinvolte. In mezzo spiccava, come un uccello del Paradiso, una ragazza speciale.
Vestiva lunghi pantaloni di seta di un colore caldo e chiaro, e sopra una giacca sciolta, asimmetrica, di seta più scura. Dal colletto il viso emergeva come un fiore. I capelli castani, ricciuti, erano raccolti da un nodo alla sommità del capo, e un ricciolo le pendeva sul viso dall’ovale morbido e perfetto. Gli occhi piccoli e brillanti, il naso diritto, la linea piena delle guance che si assottigliava sul mento breve, il portamento diritto ma rilassato: la guardavo e mi dicevo: «Ecco la vera bellezza romana. Sembra una statua classica o una donna ciociara con l’anfora sul capo, come nelle foto delle bellissime modelle dei pittori laziali dell’Ottocento, come nelle donne di Palestrina, dove siamo state a Ferragosto in una lontana estate...».
Allora mi avvicinai a lei e dissi: «Io sono qui per caso, non per il matrimonio. E la sua bellezza, cara, mi ha colpito moltissimo. Però devo chiederle il suo nome, se voglio descriverla». E lei sorrise e pronunciò un grande nome romano: «Flaminia».
(continua)
di Antonia Arslan