Un incanto di professore e l’amore di Antigone
Mi capita spesso di ripetere che nessuno può pretendere, quando va a scuola, che tutti i suoi insegnanti siano bravi, buoni e capaci di incantare una classe. È già un grosso successo se – dopo qualche anno – ne ricordiamo alcuni, e un successo ancora più straordinario se conserviamo un poco di sorridente affetto per qualcuno di loro.
Certo, ricordo con sollievo la mia professoressa di matematica e fisica al liceo. Era una donna buonissima, dalla salute precaria e dalla voce flebile, che seguiva una sua filosofia ben precisa, forse poco appassionata, ma efficace, di cui la ringrazierò sempre: dai somari come me pretendeva il minimo, che imparassimo qualche definizione a memoria, che studiassimo la fisica più semplice, quella alla nostra portata, e che sapessimo ripetere le definizioni. La sua espressione preferita era: «Siate onesti con me, e io lo sarò con voi», il che significava che dava alla fine dell’anno un sei anche ai casi disperati, «tanto – diceva – non vi si aprirà la mente in un’estate...».
Ma uno solo era il Professore, quello che si era conquistato l’amore appassionato di tutti noi (e almeno un riluttante rispetto anche dagli odiatori della scuola): Federico Viscidi. «Il latino e il greco fluiscono dalle sue labbra come miele», disse una mia compagna in vena di ammirazioni estatiche, e l’espressione caramellosa non ci piacque, proprio perché, ci sembrava, lui non si poneva mai come oratore vaticinante, ma riusciva a farci piacere le due lingue, a farcele sentire familiari e protettive, eppure circondate di un potere quasi magico, ricche di sentenze fulminanti che ci entravano nel cervello e ci facevano capire come anche noi appartenevamo a quelle nobili, antichissime stirpi di cui eravamo gli ultimi discendenti. Parlavamo la loro lingua, in qualche modo. Riuscivamo a capirla.
E perfino la metrica diventava un gioco d’intelligenza dalle molteplici possibilità: ancora oggi ogni tanto mi viene in mente, come un monito e una meta (irraggiungibile, forse...), quella frase di Antigone, «non sono nata per portare l’odio, ma l’amore reciproco», che ci ripeté mille volte per imprimerci in testa la struttura del trimetro giambico, il verso base delle tragedie greche. Riuscì a farci “sentire” la lingua greca nella sua maestosa musica, con quelle improvvise lame di luce nella pagina, forti come cadenze solari, i suoi verbi guizzanti ed estrosi, e il cupo rimbombo del mare dai molti colori di cui era impregnata.
Ci portò a Napoli nelle vacanze di Pasqua, in terza liceo, e lo sentimmo come un Virgilio del Nord che ci conduceva alla scoperta del Sud. Ci innamorammo in blocco della città, che lui ci fece percepire subito, al di là del folclore locale, come una grande capitale dai mille volti, dalla sirena Partenope alla Neapolis greca all’oscura metropoli di Boccaccio. Andavamo per musei, chiese, vicoli e viuzze, sepolcreti e catacombe, come inebriati dalla luce e dall’ombra, dalla forza dei contrasti visivi che acuivano i nostri sensi.
Non ho mai dimenticato quei giorni, né l’energia sorridente con cui ci guidò. Non ci impose mai la sua fede, di cui parlava come di una sua privata felicità personale, che condivideva nei fatti, senza mai parlare di sé: faceva parlare noi e ci prendeva in giro, ci correggeva con vigore, ci faceva sentire amati...