Un amore di lavanderia
Nel quartiere di Tudor City, a New York, si sta molto bene. Sei nella grande città, ma sei anche in un appartato e tranquillo villaggio dall’aria molto inglese e piuttosto bizzarra: incontri vecchiette dai cappelli fioriti e dignitosi signori baffuti che passeggiano nei curatissimi giardini, ma anche giovani donne che pilotano con disinvoltura carrozzine superequipaggiate da cui sorridono deliziosi bebé, e orientali indaffarati con enormi borse. Vi si arriva da una lunga scala che fiancheggia un primo giardino, coi suoi grandi alberi oscuri, e raggiunge la parte sopraelevata su cui si affacciano gli ingressi di grattacieli in stile Tudor, ricchi di muraglie e contrafforti neomedievali, con vetri a piombo dai colori cangianti e piccoli cortili pavimentati di larghe pietre grige.
Di fronte, ecco altri due allegri e vivacissimi giardini, pieni di fiori e panchine, dove a mezzogiorno la gente pranza serenamente con le vaschette di variopinte insalate e le bottigliette colorate. Qua e là si aprono negozietti, come in una vecchia strada europea: un piccolo spaccio di alimentari, un caffè con similpizzette e tramezzini giganti che ti scaldano al momento, con salsine varie, un piccolo atelier di moda, un rigattiere (come ce ne sono tanti nella città, anche se questo ha orari stranissimi e variabili), un ristorante, un ufficetto postale... e il lavasecco.
Andarci era sempre una festa. Il proprietario, un coreano sui quarant’anni, era taciturno ma gentilissimo. Prendeva in mano con molta serietà ogni capo che gli si metteva davanti e lo guardava intensamente. Poi sfregava leggermente la stoffa e pronunciava solennemente la cifra che ti sarebbe costata la pulitura; infine ti diceva a voce più bassa se gli pareva necessario qualche ulteriore lavoretto, tipo rinfrescare il colore. Mi ipnotizzava ogni volta, anche perché io intanto guardavo affascinata (sopra il grande specchio alla destra del bancone di legno grezzo dove si appoggiavano i sacchetti della roba da lavare) la grande varietà di banconote scadute di tutti i paesi del mondo, incollate secondo un ordine misterioso ma in certo qual modo rasserenante. Non facevo mai in tempo a contarle tutte, perché ogni volta ricominciavo da capo, dalle mille lire campeggianti nel mezzo, nuove nuove sembrava, lucide come appena uscite dalla zecca di stato.
E così fu che infine mi decisi a mostrargli direttamente la mia curiosità. Lui forse se lo aspettava, o forse quel giorno aveva voglia di chiacchierare: fatto sta che si mise tranquillo, appoggiandosi sul bancone. E mi raccontò che raccoglieva soldi di carta da quando aveva diciott’anni, e ormai era conosciuto per l’ampiezza della sua raccolta; e che aveva trovato anche banconote rarissime. E che aveva contagiato con la sua passione la giovane moglie (il suo nome pareva il cinguettio di un uccellino) e i suoi figli, maschio e femmina, gli avevano trovato dei bellissimi pezzi presso i loro compagni di scuola. Io dissi: «Un’intera famiglia di esperti collezionisti!», e lui si illuminò tutto. Divenimmo amici, da allora, e parlammo tante volte, di tantissime cose.
Ma l’anno scorso a New York lui non c’era più, come molti altri. Le serrande abbassate per sempre: anche il mio lavasecco preferito era stato vittima della crisi, e io, di lui, non conoscevo che il nome...