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Surendra, un indiano a Padova

​Eravamo un piccolo gruppo di amici, appassionati a cause che sono diventate di moda molti anni dopo, come la protezione di alberi antichi e la difesa delle mura della nostra città. Il clima che ci circondava era strano, talvolta: ricordo con raccapriccio come una giovane collega di supplenze sentenziò, sulla corriera che ci riportava da Este a Padova: «Io sono d’accordo con mia madre. Gli alberi sporcano, con tutte quelle foglie. Nel cortile davanti alla nostra nuova casa metteremo solo cemento». E ricordo anche che io, seduta davanti a lei, non riuscii a dire niente, se non un vago brontolio, tanto l’impresa di farle cambiare idea mi pareva impossibile (eppure il semestre precedente avevo studiato in Germania: e là, di pomeriggio, andavo a sedermi felice sotto l’antica, maestosa quercia del parco della Nansenhaus di Göttingen...)
C’eravamo Marta, Francesca e io, studentesse di Lettere; un paio di futuri architetti che studiavano a Venezia; un vecchio avvocato che aveva tempo libero e che conosceva ogni portico, ogni vicolo e ogni resto di muro medievale della nostra città; e Francesco, un timido studente di medicina che proveniva da Monopoli di Puglia, aveva un paio d’anni più di me e soffriva di nostalgia.
Fu in un limpido pomeriggio di novembre che arrivò un personaggio nuovo, che in breve tempo conquistò l’amicizia di tutti. E fu proprio Francesco che un giorno si presentò accompagnato da un giovane indiano bellissimo, con ciglia ricurve su grandi occhi orientali e lunghe mani affusolate, su cui brillava un anello lucente. Era anche lui a Padova, ci disse, per studiare medicina; e aggiunse che proveniva dalla lontana Hyderabad, il che ci fece subito sognare l’India romanzesca di tante letture, da Salgari a Hesse.
Si chiamava Surendra, e per molti mesi lo conoscemmo solo per nome. Il cognome, Narne, lo imparammo col tempo. Fraternizzò con noi in pochi giorni: era gentile e pieno di curiosità, sempre sorridente e generoso; ma soprattutto dimostrava un’innata eleganza, con modi squisiti che ci incantavano. Un po’ alla volta divenne popolarissimo: si presentava in uno scintillante abito indiano alle nostre feste, ballava bene, aveva sempre qualche cosa da offrire e gradiva la compagnia di tutti. Ed era una persona buona, come il suo fraterno amico Francesco: entrambi furono poi ottimi medici, lui otorino, allievo di mio padre, e l’altro pediatra. Surendra divenne in seguito celebre per la sua eccezionale perizia di chirurgo, sposò una cara ragazza di Falcade, ebbe tre splendidi figli... ma prima crebbe con noi, e le nostre vite in quegli anni di studio si intrecciarono per sempre alla sua. Tornando dalle vacanze mi portò per due o tre anni di seguito meravigliosi scialli indiani, che ancora conservo nelle loro bellissime scatole: uno leggerissimo, in soffici toni di azzurro, un altro morbido e scuro come una notte solcata di stelle. Ogni tanto li guardo, e penso alla lettera che mi scrisse in Germania, dove ero tornata per un paio di mesi, dicendomi che si era convertito e chiedendomi di sposarlo. Io gli volevo molto bene, come a un amico carissimo. E così fu, per tutta la vita. Una solida, leale amicizia, finché un mese fa è andato a vivere dall’altra parte, oltre l’oscuro confine.