Storia di un professore
La sezione E era eccellente, dicevano tutti. Papà Khayël non ebbe dubbi e la scelse per me. Fu così che all’inizio della quarta ginnasio passai di colpo dal gradevole ambiente scolastico - tutto al femminile - della scuola media delle suore di don Bosco, col loro bellissimo giardino, l’accogliente cappella sul chiostro e il pomeriggio che si passava rilassate a fingere di studiare o a giocare, alla severa atmosfera del nobile e antico liceo classico, il Tito Livio. Il preside era allora un famoso e accanito manzoniano. Celebri le sue visite a sorpresa, in cui poneva a caso agli studenti complicati quesiti sul romanzo, ai quali probabilmente neppure i professori avrebbero saputo rispondere: ma - uomo buonissimo e vero gentiluomo all’antica - davanti alla diffusa ignoranza faceva una breve predica e si congedava con un sorriso. A me toccò una domanda che non ho mai dimenticato: «Quanti erano i figli del sarto nel capitolo XXIV, quello della conversione dell’Innominato?» Ricordo che mi ballarono in testa vaghi ricordi, poi decisi di star zitta, e feci bene...
La professoressa Bareggi ci guidò attraverso il ginnasio con polso fermo, grande equilibrio e pochi sorrisi: ma c’era poco da scherzare, perché in quegli anni le due classi, quarta e quinta, erano nelle mani di un gruppo di donne “terribilissime”, che gestivano cinque materie ciascuna, in pratica decidendo promozioni, bocciature e rimandi a settembre: lingua straniera e matematica influivano ben poco sui risultati complessivi. Ci preparò egregiamente all’incontro col mitico professor Viscidi, il grande Federico, la stella del liceo, e in seguito a lei mi affezionai seriamente; ma il professore... Il rispetto che provavamo tutti per lui fu conquistato subito, e non venne mai meno; l’affetto crebbe in fretta, man mano che ci si accorgeva del suo profondo equilibrio nei nostri confronti, della sua fede serena e dell’amore totale che provava per il suo mestiere; anzi - come mi disse una volta, anni dopo - si riteneva molto fortunato di fare quello che gli piaceva di più nella vita, «accompagnare giovani menti e vederle sbocciare».
Circolavano voci che avesse rinunciato per il liceo alla carriera accademica, e certamente conosceva le sue lingue antiche e i suoi classici in modo superbo. Quando consegnava i compiti in classe, procedeva dal voto più basso al migliore, come si fa spesso; ma con i “somarelli” indugiava, spiegando a ciascuno ogni errore e, si potrebbe dire, soffrendo con lui e approfondendo ogni dettaglio: quando poi qualcuno migliorava, diventava davvero felice.
Ci insegnava la metrica latina e greca proponendo ogni metro accoppiato a una sentenza o un motto celebre: è così che dalla mia memoria non è mai scomparsa la frase dell’Antigone di Sofocle, «Non sono nata per portare odio, ma amore reciproco», che in tante occasioni mi sono vista lampeggiare davanti come un severo avvertimento.
A Pasqua della terza liceo ci accompagnò a Napoli, e furono cinque giorni incantati. Da Posillipo a Chiaia, dal Vomero a Castel dell’Ovo, dall’antro della Sibilla Cumana a Pompei, per rovine e chiese e conventi, l’antica Partenope si fuse in me con la città medievale, Andreuccio da Perugia con la splendida città dei Borboni: un dono di gioiosa sapienza e di vivida conoscenza che conservo nel cuore per sempre.