Spazzatura d'artista
Si conserva nei Musei Vaticani un’opera d’arte che è una mirabile riflessione sul cibo; il cibo consumato, sprecato, il cibo che è figura della vita perché continuamente la alimenta e la rinnova ma che è anche simbolo di deperibilità, di caducità.
Si tratta di un grande mosaico pavimentale (metri 4,09 x 4,05) di età adrianea, databile quindi all’inizio del secondo secolo dopo Cristo, scoperto nel 1893 negli scavi di una ricchissima villa situata nei pressi di Porta Ardeatina, aristocratica zona residenziale della Roma antica.
È un manufatto di alta qualità che il mosaicista greco è orgoglioso di firmare nella sua lingua: “Eraclito fece”. Temi iconografici diversi coesistono e si confrontano. C’è il tema nilotico, esotico e “romantico”, degli uccelli acquatici, dei coccodrilli, delle erbe palustri e delle immagini di Iside e di Osiride. C’è il tema intellettuale rappresentato da sei maschere teatrali. C’è infine ed è, fra tutti, quello più affascinante, la rappresentazione insieme naturalistica e sapienziale dello “asarotos oikos”, due parole greche che indicano il pavimento non spazzato.
Alla fine del banchetto, prima che i servi intervengano a pulire, rimangono sul pavimento i resti del cibo gettati a terra dai commensali. Sono lische di pesce, chele di crostacei, gusci di ostriche, foglie di lattuga, ossa di polli e di selvaggina, residui di frutta solo in parte mangiata. In un angolo c’è anche un topolino che furtivamente rode una noce.
È un’insolita natura morta. Soprattutto è un “memento mori”, è una riflessione sulla vanità dei piaceri di questo mondo.
È finito l’allegro convivio, i buoni cibi sono stati mangiati, restano la malinconia e la sazietà. Restano i rifiuti destinati a finire nella spazzatura. Così come presto finiranno nella morte, nella insignificanza e nell’oblio le opere e i giorni dei commensali. Perché tutto è effimero sotto il cielo. La bellezza della natura (le scene nilotiche), la poesia e la cultura (le scene teatrali), il piacere della tavola, fanno la consolazione di un attimo.
I più colti fra gli ospiti di Trimalcione, fra una portata e l’altra del mirabolante banchetto descritto da Petronio nel suo Satyricon, dovevano pensare cose di questo genere quando nel triclinio, fra i fumi del “Falernum Opimianum”, il vino centenario servito dal padrone di casa, il loro sguardo si posava su un pavimento mosaicato forse non diverso da questo.
Diciannove secoli prima dell’Expo milanese, a Roma, un artigiano greco di talento consegnava il suo capolavoro a un ricco e colto notabile romano, a un signore che teneva sicuramente nella sua biblioteca i libri di Epicuro e di Lucrezio, di Platone e di Ermete Trismegisto e che forse aveva sentito parlare delle nuove strane religioni che stavano sorgendo in Oriente, il Cristianesimo fra le altre.
In questi secoli il cibo ha abitato la storia dell’arte. È centrato sulla mensa eucaristica (nel Cenacolo di Leonardo da Vinci e nei tanti, di Andrea del Castagno, di Domenico Ghirlandaio, del Veronese, che popolano i refettori della vita consacrata); deborda e quasi ci travolge in un tripudio di pesce, di selvaggina, di salumi e di carne macellata nelle Dispense italiane e spagnole e nelle nature morte fiamminghe; fa da cornice alle nozze di Cana, alla cena in Emmaus, alla sosta di Cristo nella casa di Marta e di Maria; trema, fermato per l’eternità dentro la luce del Vero, nella Canestra di frutta del Caravaggio che il cardinale Federico Borromeo comprò a Roma e che ora si trova all’Ambrosiana di Milano.
Ma il cibo consumato, il cibo che è testimonianza di qualche momento felice, lo troviamo per la prima volta nell’“asarotos oikos” dei Musei Vaticani.
di Antonio Paolucci