Sette parole e poi il silenzio
Le parole di Franz Joseph Haydn (1732-1809) ci riportano idealmente indietro di oltre due secoli, tra le navate della cattedrale di Cadice, testimoni stupiti e partecipi del suggestivo apparato rituale che accompagnava le celebrazioni del Venerdì Santo: «I muri, le finestre, i pilastri della chiesa erano ricoperti di drappi neri e solo una grande lampada che pendeva dal centro del soffitto rompeva quella solenne oscurità. A mezzogiorno le porte venivano chiuse e aveva inizio la cerimonia. Dopo una breve funzione il vescovo saliva sul pulpito, pronunciava una delle ultime sette parole di Gesù sulla croce e la commentava. Dopo di che scendeva dal pulpito e si prostrava davanti all’altare. Questo intervallo di tempo era riempito dalla musica. Il vescovo saliva in cattedra e ne discendeva una seconda, una terza volta, e così via, e ogni volta l’orchestra interveniva al termine di ogni sermone. La musica da me composta dovette adattarsi a queste circostanze e non fu facile scrivere sette Adagi, ciascuno della durata di circa dieci minuti, che mantenessero in raccoglimento gli ascoltatori…».
Questa è l’origine della composizione de Le sette ultime parole di Cristo sulla Croce, capolavoro haydniano strettamente legato alla destinazione liturgica che ne prevedeva l’esecuzione durante i riti al culmine del Triduo Pasquale; strutturata in sette movimenti lenti, racchiusi tra l’Introduzione (“Maestoso e Adagio”) e il Terremoto finale (“Presto con tutta la forza”), questa «musica instrumentale» ricopriva il compito di stimolare le riflessioni e amplificare gli stati d’animo evocati dalla lettura dei brani evangelici. Per scavare sempre più nel profondo e portare alla luce la tensione espressiva e la forza d’impatto emotiva del messaggio racchiuso nei sacri testi, il compositore austriaco è ritornato più volte sul nucleo ispirativo originario, realizzandone tre diversi adattamenti: alla prima versione per grande orchestra del 1787 è seguita l’anno successivo una trascrizione per quartetto d’archi e una decina d’anni più tardi una nuova rielaborazione in forma di oratorio, con l’aggiunta di quattro voci soliste e coro.
Le ultime sette parole pronunciate dal Salvatore vengono scolpite nella potenza e nella visionarietà del grandioso affresco sonoro di Haydn, sbalzate fuori dal pentagramma con vivida immaginazione: la richiesta di perdono a favore di un’umanità inconsapevole dei propri errori, l’estrema dichiarazione di amore fraterno e filiale a Giovanni e alla Madonna, la promessa di eterna salvezza al ladrone crocifisso, la solitudine di fronte alla morte, la dimensione fisica del dolore, la consapevolezza del compimento della propria missione e l’abbandono finale tra le mani del Padre acquistano forma d’arte assoluta nella ricchezza dell’impianto tematico e nell’estrema varietà di soluzioni offerte dall’invenzione musicale. Portando ai piedi della croce un tumulto di sentimenti risvegliati dalla tenera commozione della Sonata III (“Mulier, ecce filius tuus”), dalla calma serenità della parte centrale della Sonata VI (“Consummatum est”) o dall’infrangersi del clima pastorale dell’ultima sonata sul tempestoso squarcio del Terremoto conclusivo; tappe imprescindibili di un lungo e appassionante racconto strumentale che lascia letteralmente “senza parole”.
di Andrea Milanesi