Sayat, l’ultimo trovatore delle terre di Armenia
Una sera a Ravenna, parecchi anni fa, ho visto il famoso film di Sergej Paradjanov, Il colore dei melograni. Eravamo pochi in sala, concentrati sulle superbe, sontuose immagini che descrivevano la vita del grande poeta Sayat-Nova, l’ultimo degli ashug d’Armenia, i trovatori-cantastorie che vivevano presso le corti principesche del Caucaso e cantavano epici fatti d’arme, gloriose imprese e donne bellissime dalle sinuose forme, simili a ogni albero o fiore del mondo creato, di fronte alle quali il poeta poteva soltanto inchinarsi e gemere d’amore. Ci pareva di essere immersi in un’atmosfera irreale e arcaica, contemplando dei quadri che lentamente fluivano l’uno nell’altro, seguendo un ritmo misterioso. Il regista, geniale armeno malvisto dal potere sovietico, era riuscito a legare fra loro, con immagini folgoranti e squisite, poesia e musica: il ritmo dei versi sembrava essersi riversato in suono e visione, esercitando sullo spettatore una suggestione quasi ipnotica.
Ma soltanto da pochi mesi ho potuto leggere l’intero canzoniere armeno di Sayat-Nova, nella traduzione di Paola Mildonian: splendide canzoni per musica, col loro ritmo ondeggiante, i ritornelli, e le variazioni sul tema giocate in strofe sempre più intense dall’inizio alla fine, quando inevitabilmente – nell’ultima –compare lui in terza persona, l’autore-protagonista, ritratto come l’umile amante che prega, contempla, si dispera.
Ogni lirica era accompagnata dalla musica, intrecciata con essa, ne prendeva luce e gliene dava: perché non esiste poesia, dice Sayat-Nova, senza il suono di strumenti come il kamancià, il suo preferito: il poeta-cantastorie deve essere anche provetto musicista. Mi pareva di capirla benissimo, questa necessità: quando il ritmo nascosto di una poesia mi piace, io comincio a sentirmelo echeggiare in testa, e mi accorgo che ogni parola si lega a quelle che la precedono e la seguono, quasi dissolvendosi in esse, come un tassello di mosaico o una pennellata precisa si assimilano nella visione d’insieme. E allora s’insinua nelle parole una melodia che le accompagna e rende il ritmo più forte – ma anche più facile da ricordare e da trasmettere. Sayat-Nova scriveva in armeno, georgiano, turco. Conosceva il russo e chissà quante altre lingue, ma la musica era la stessa, e nelle corti come nei mercati e lungo le strade d’Oriente tutti gli ascoltatori si riconoscevano in una comune civiltà e cultura, ritrovavano i simboli dell’esperienza amorosa – e di quella mistica – unite in un doloroso vagheggiamento dell’irraggiungibile: «Se pure ti lodasse il mondo intero, non direbbe di te in minima parte. / Ninfea, fiore dei mari, viola che si è dischiusa al vento, / come resistere al tuo amore? L’acqua si porti via Sayat-Nova. / Chi t’ha vista più di una volta, dissennato hai reso e demente». Colori, odori, suoni, sete preziose, giardini chiusi, cipressi e mirti, la rosa rossa e lo straziante canto dell’usignolo notturno, mostrano un universo in tensione, proteso verso un’impossibile conoscenza d’amore: «Se sei davvero l’amore di Sayat-Nova, che ti costa parlarmi almeno una volta? / La tua ombra avvolge il mondo, la tua luce contrasta il sole. / Profumo di cardamomo, garofano e cannella, di rosa, di origano, di viola, / tu sei per me il fiore rosso dei prati, il giglio delle vallate».
di Antonia Arslan