Ritorno a Lugano, il respiro del lago
Costeggiare il lago, che incanto. Appare e scompare coi suoi edifici di un liberty sontuosamente sparso, in volute, ricci e arabeschi, sulle ville arrampicate dappertutto su colli e alture, fra i giardini e gli alberi spogli di questo principio d’inverno. Il treno fila veloce verso il sud, e io mi perdo fra immagini dell’ieri e dell’oggi. La prima volta che venni in Svizzera fu proprio a Lugano, per un convegno di medici, in compagnia di mio padre. Avevo dodici anni e una selvatica inimicizia verso il mondo là fuori: non mi sentivo più la bella bambina bionda coi ricci che incantava tutti, ma un’adolescente spennacchiata alla quale – dopo la malattia – i capelli erano ricresciuti marrone scuro e drittissimi. Quattro treccine non miglioravano ai miei occhi l’insieme: «Almeno hai un bel nasino all’insù e bellissime orecchie», pigolava per consolarmi zia Henriette, con immaginabile scarso successo. Nessuno guardava né il mio naso né le mie orecchie...
Ricordo un albergo grandioso che si affacciava sul lago. La colazione era così abbondante da perdercisi dentro, piena di vasetti stuzzicanti, di piccoli pani tondi, di brioches e di crêpes traboccanti di marmellata; e mia madre, lietissima di avere solo una figlia a cui badare (invece di cinque), e decisa a sfruttare in pieno l’occasione, voleva assolutamente farsi portare la colazione a letto. Io mi sedetti sul letto con lei e ci divertimmo. Assaggiai tutto con voracità, burro miele marmellata yoghurt frutta cotta muesli, finché mio padre mi guardò con disgusto e disse: «Ma guardati! È vero che tu sei come me, molto golosa, ma mangi troppo in fretta. Fra un po’ ti sentirai male». Questo per fortuna non avvenne, anche se alla sera la cena mi parve singolarmente insipida e un po’ nauseante.
Eravamo quella volta, direi, nel mese di giugno. Nel ricordo, credo che il lago allora mi parve liscio e un po’ cupo, con le fitte montagne tutto intorno che scendevano a picco nell’acqua. Oggi siamo poco prima di Natale, ma la giornata – pur breve – scintilla di una luce straordinaria, eccitante, accecante. Il lago però mi sembra ancora cupo, quasi plumbeo, come uno specchio riflettente e insondabile. Come vorrei ritornare alla cattedrale di San Lorenzo, salendo per la strada a gradoni che percorremmo tanti anni fa, e rivedere in questo sole nitido quella bianca facciata, di cui ricordo poco i dettagli, molto il colore del marmo; e come vorrei risentire il concerto di campane che inaspettato ci accolse mentre salivamo, come un invito, come una strana, intima preghiera che parlava a ognuno di noi con una voce segreta...
Ma oggi sono a Lugano, questa città che così spesso divenne per gli italiani perseguitati un porto accogliente, per ricordare la storia rimossa e segreta del popolo armeno e del Grande Male che – cento anni fa – lo ha quasi cancellato. Ci sono sei fratelli che vivono qui, adesso, ma che vengono da uno dei distretti più fieri dell’Armenia storica, le terre di Sassoun, dove pochi montanari seppero resistere per secoli al dominio ottomano. E ci sono coloro che – per amore di verità – condividono l’immensa fatica del far conoscere, far ricordare, combattere il negazionismo stolto e crudele. E io spero che a lungo risuoni la forte voce delle campane di San Lorenzo.
di Antonia Arslan