Quel che passa il convento
Nel cristianesimo l’atto rituale-conviviale del prendere il cibo in comune è fondamentale: anche in ciò si configura l’incontro tra fede in Gesù e filosofia di Platone (il “convito” appunto), che si sarebbe imposto ben presto fornendo una base alla teologia della nuova religione e che avrebbe trovato in Agostino il suo definitivo fondamento teorico. Certo, la tradizione mistico-ascetica svaluta il cibo e lo confina, come quantità e qualità, nei rigidi limiti della stretta sopravvivenza. La gola è uno di quei vizi capitali che inducono al peccato mortale. Ma Francesco, in punto di morte, espresse il desiderio di gustare ancora un po’ di quei dolci che la sua amica romana Jacopa de’ Settesoli usava preparargli. E Gesù amava tanto i pranzi e i conviti da esprimere il dubbio che qualcuno potesse giudicarlo un crapulone. Il digiuno è salutare e meritorio esercizio ascetico. Ma a valorizzarlo sono l’appetito e il desiderio del cibo: non si tratta tanto di tenere a freno il naturale istinto della fame quanto di controllare e reprimere la ricerca di un piacere. Senza il gusto del mangiare e del bere, la rinunzia non sarebbe né virtù, né penitenza: sarebbe anoressia.
È comunque diffusa l’idea che il cristianesimo sia tendenzialmente piuttosto estraneo se non ostile al cibo. Bene: andiamo a pranzo. Accomodiamoci al ristorante per un menù à la carte. Cominciamo con una “zuppa certosina”, per continuare con del formaggio parmigiano o una porzione di quel formaggio bianco morbido detto appunto “certosino”, innaffiati con buona birra d’abbazia, e chiudiamo con un bicchierino di verde, forte Chartreuse. Tutto questo in un modo o nell’altro deriva dalla cultura monastica.
In una sequenza del film Il nome della rosa, tratto dal romanzo di Umberto Eco, una folla di straccioni è sfamata dai religiosi che, dall’alto delle mura monastiche, svuotano loro addosso grossi recipienti pieni di avanzi di cucina. Qui c’è una verità e una menzogna. Cominciamo dalla seconda: in nessun monastero i poveri e i pellegrini sono mai stati nutriti con avanzi; al contrario, di solito essi venivano trattati al meglio. La verità è invece che gli avanzi delle cucine monastiche potevano essere ingenti e anche ricchi: e non solo perché i monasteri erano densamente popolati. Nel complesso i monaci si trattavano piuttosto bene. Certo, poi c’erano le differenze gerarchiche, come spiegano i Carmina Burana: «Bonum vinum, in laetitia, bibit abbas cum priore / et conventus, in tristitia, vinum de peiore».
di franco Cardini