Quei sottili confini tra i prof
Antonia Arslan
A volte, ci inganniamo da soli. Soprattutto in certe occasioni, come nel rapporto con colleghi di lavoro, in compagnia dei quali capita di passare molto tempo e di sviluppare una rete apparentemente assai solida di condivisione di momenti lavorativi, di conoscenze e di passioni, o anche di momenti di riposo, con chiacchiere, cibo, un’illusoria fraternità. Sono quelle che vorrei chiamare “situazioni di amicizia”: si sta bene insieme, e si comincia a credere che sia nata una fiducia – e che sia reciproca – ci si fanno confidenze a volte anche molto intime, si raccontano prese in giro, soprannomi ironici o piccole maldicenze verso una persona sgradita (o ridicola...), si ride con complicità: e si finisce per chiamare tutto questo amicizia.
Ma “amicizia” è una parola pesante – e così spesso fraintesa. Non a caso questa grandissima emozione umana, generosa e altruista, sollecita e amabile, è stata descritta e analizzata fin dai tempi più antichi; oggetto di continue riflessioni nel mondo greco e romano, considerata superiore all’amore per la sua durata nel tempo, per il legame strettissimo che instaura fra due esseri umani, e la sua capacità di coesistere, inizialmente, con l’amore-passione e poi di superarlo, cementando fra due persone un legame che spesso non si interrompe che con la morte di uno dei due. E quando compare in essere, lo spettatore vede, letteralmente, lo scintillio di questo legame, come una corda tesa che rende i due amici presenti e attenti al mondo esterno, ma anche continuamente consci del loro privato colloquio. E spesso gli capita di desiderare di essere incluso nel cerchio magico di quell’unione; ma insieme si domanda se sarebbe in grado di reggerla; e così – spesso – investe del suo desiderio i colleghi con cui si trova a suo agio.
Qui nasce un subdolo e sottile equivoco. La condivisione di lavori e di spazi, l’eccitante complicità della chiacchiera, il prezioso momento del rilassarsi insieme dopo ore di fatica, nella quieta atmosfera di un caffè-con-dolcetto, non sono in realtà vera amicizia: sono le soste di cui abbiamo bisogno, inserite in un’atmosfera gradevole. Si interrompono quasi immediatamente con l’interrompersi della consuetudine lavorativa. Le persone che ci sembravano vicine e amiche sfumano in un’indistinta lontananza: noi non pensiamo più a loro, e loro non pensano a noi.
Dove siete adesso tutti voi, miei colleghi e “amici” del dipartimento di Palazzo Maldura, mi chiedevo l’altro giorno, leggendo per caso la notizia della morte improvvisa di uno di loro, al quale – tanti anni fa – avevo perfino dedicato degli scherzi poetici, piccoli acrostici che mi divertivo a scrivergli, convinta che fosse la persona più adatta a capirli. E lui mi rispondeva su eleganti foglietti di carta sottile... Dopo che andai in pensione non mi cercò più (in verità, neanch’io).
Non avevamo più niente da dirci, e l’amicizia non coltivata si spense. E questo mi sembra un altro frequente e pericoloso equivoco. L’amicizia si intesse di quello scambio continuo che è il suo fascino e la sua linfa vitale; il rivedersi, il sentirsi dà forza a entrambi, schiarisce le giornate e gli umori. È un dono di fiducia e lealtà, che ritorna centuplicato, sorregge e si fa sorreggere: ma deve crescere e nutrirsi anche dei mille specchi del sorriso e dell’ironia.