Prendere un tè tra le braccia del carpino
Antonia Arslan
Ho sempre provato un sentimento speciale, come una fonda nostalgia di un eden perduto, per i grandi alberi, come se solo loro, fra le creature viventi, mi potessero dare quella protezione totale, fino a svanirci dentro, a scomparire magicamente fra le fronde e i rami, che ogni bambino desidera quando non vuole farsi trovare. E l’albero archetipico fu per me il grandioso castagno che si espandeva liberamente al confine del prato dei nonni italiani a Susin di Sospirolo.
L’unica alternativa, nella nostra infanzia, l’altra fortissima immagine arborea che mi è rimasta impressa per sempre, frammento di quella misteriosa memoria olfattivo-visuale che, per ogni essere umano, fa parte del suo più antico e personale patrimonio mentale, fu invece il cerchio di alti e nodosi carpini, rinserrati e intrecciati fra loro, che racchiudevano il cupo bersò al centro del prato. Nelle intenzioni di nonna Virginia, quello spazio tondeggiante, che racchiudeva un tavolone rotondo di pietra locale, sarebbe dovuto servire per prendere il tè al pomeriggio, ma lo vidi usato a quello scopo soltanto una volta, per un capriccio di mia madre che voleva provare certe maioliche verdi di cui si era innamorata.
Nella realtà famigliare, il bersò serviva come casa per i bambini. Ognuno di noi si arrampicava su uno dei carpini, ma si poteva passare dall’uno all’altro sui rami che si erano fusi insieme, e farsi visita nelle nostre casette aeree. Il tè, lo si andava a prendere, con le chiacchiere del paese e i meravigliosi biscotti dorati della cuoca Lisabetta, nella villotta vicina dal fratello di nonna, lo zio Giuseppe, noto critico d’arte, ma per noi bambini un amichevole folletto dalla voce acuta. Noi non amavamo le conifere, i pini del viale o il maestoso cedro che troneggiava solitario davanti alla villa dello zio, perché non erano adatti per arrampicarsi. Gli aghi si infilavano nelle nostre mani grassocce, o nei vestiti, o negli occhi, e i rami non offrivano comode biforcazioni su cui sedersi. Gli alberi da frutto andavano bene, ma non erano mai tanto alti, e poi i proprietari li tenevano controllati a vista, temendo i probabili furti. Noci, carpini, castagni permettevano invece di salire in alto e dominare la valle; di sentirsi immersi nell’avventura, esploratori. Le dolci colline del bellunese erano tutte da conquistare: i valloncelli segreti e le ville coi capricciosi giardini, gli orti, le case abbandonate e i ruscelli ombrosi erano tutti per noi.
Salire sugli alberi “giusti” era però una conquista speciale, di cui eravamo i gelosi custodi; e poi, ognuno aveva il suo albero-amico, del quale era il riconosciuto padrone-e-servitore. Ed è da quegli anni lontani che – quando incontro certi alberi grandissimi – li riconosco come possibili amici, esseri di cui posso fidarmi, che offrono protezione, ombra, riposo; ma soprattutto allargano la mente nella luce indescrivibile che arriva a noi filtrata attraverso le foglie, verde linfa vitale. E penso che qualche volta bisogna sentirsi foglia ormai inutile, staccata dall’albero e trascinata dal vento, come nella famosa poesia di Arnaud che una volta si imparava a memoria e fu tradotta da Leopardi, come nei versi del greco Mimnermo: fragili e poco importanti, piccole cose da nulla destinate ad avvizzire, umili parti di un tutto immenso.