Popoli nella trappola del ragno
In tutte le pubblicazioni riguardanti la crescente urbanizzazione del mondo si ritrova la stessa affermazione: il futuro è nelle città, nel bene e nel male. Nel bene perché pare che le città sostituiranno sempre più le nazioni, come se il globo intero dovesse trasformarsi in un sistema di polis. Tokyo, New York, Pechino, Caracas connesse tra di loro dalle reti informatiche, finanziarie, mediatiche. Nel male perché questa tendenza spopola le campagne e le lascia nelle mani delle bande criminali che rispondono al nome di multinazionali dell’agricoltura industriale, che devastano la natura, saccheggiano il terreno e lasciano dietro di sé una scia di cancri e un’aridità permanente.
Le città sono un enorme imbuto dentro cui sono attirate le masse di diseredati di tutto il mondo, dall’India all’America Latina, dalla Cina all’Indonesia. Attrazione dovuta al non potere sopravvivere dei frutti della propria terra caduta nelle mani delle multinazionali e alla tentazione di far parte della “mecca” urbana dove si concentra la ricchezza e il sogno delle mille opportunità. In più le città promettono una libertà dai vincoli tribali e dal controllo sociale vigente nei piccoli centri e nelle campagne. Ovviamente una buona parte del sogno è un’illusione, ma basta che esso sia una promessa per le generazioni a venire che i più poveri vi si imbarchino, facendo enormi sacrifici.
Fin qui quello che impariamo dalle statistiche delle Nazioni Unite e dalle agenzie internazionali che si occupano di urbanizzazione. Un mondo sempre più urbano e una povertà sempre più urbana. Quello che è strano in queste inchieste è l’aspetto quasi fatalistico con cui viene descritta la tendenza. Come se fosse qualcosa di “naturale”, un dato di cui prendere atto e basta. Poche sono le voci discordanti che osano pensare che forse l’urbanizzazione potrebbe essere arrestata o contrastata con nuove politiche di protezione della produzione agricola e di difesa ecologica dei territori.
Cosa blocca e rende rare queste proposte? Che in sé ricordano le utopie autoritarie sovietiche o cinesi e il loro fallimento, e che contrastano l’idea liberale che la città è il luogo per eccellenza della libertà. Allora sarebbe interessante se qualche buon istituto di ricerca inventasse una via nuova alla ruralizzazione, una via non già autoritaria, ma più consona alla speranza, che oggi tutti dobbiamo nutrire, di non distruggere interamente il mondo per trasformarlo in una immensa periferia.