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Ospitalità greca a New York

Antonia Arslan

Conobbi il signor Evangelos più di vent’anni fa, in un simpatico ristorante di New York che si affacciava sulla tranquilla strada interna dell’appartato quartiere degli anni Venti chiamato Tudor City. È una piccola zona in cui sorgono un certo numero di grattacieli e alcune case più basse, edifici tutti raggruppati intorno a due deliziosi piccoli giardini e preceduti da un albergo chiamato appunto Tudor Hotel. Furono costruiti fra la Prima e la Seconda Avenue verso la fine degli anni Venti, in un terreno su due livelli davanti al Distretto dei Mattatoi (Abattoir Center), il luogo dove poi – dopo la Seconda guerra mondiale – sorgerà il famoso edificio delle Nazioni Unite, progettato da Niemeyer e Le Corbusier: il Palazzo di Vetro sarà inaugurato il 14 settembre 1948.
Il caratteristico quartiere si affaccia da un lato sull’East River, uno dei due fiumi che circondano l’isola di Manhattan; poi abbraccia i giardini e digrada con una bellissima scalinata verso la Seconda Avenue e il traffico senza riposo della città. È ancora intatto e il complesso è vincolato nel suo insieme come storico.
Il progetto si ispirava allo stile Tudor, e si basava sull’idea – bizzarra, ma affascinante e molto americana – di mettere insieme la tradizione europea delle vetrate a piombo medievali e rinascimentali di chiese, case ed edifici pubblici, riprendendo anche qua e là pinnacoli, animali mostruosi, camini monumentali e finestre ogivali, con la praticità essenziale del nuovo  modo di costruire della New York degli anni Venti: piccoli appartamenti per pendolari, servizio impeccabile di portierato giorno e notte, lavanderia comune, sala per la ginnastica, numerosi ascensori. E – al­l’interno del quartiere – un piccolo ufficio postale, la lavasecco, un robivecchi, negozietti vari e un ristorante con ampie volte e grandi sale. Lo gestiva in modo caloroso ed efficiente il signor Evangelos (il quale non accettava il popolare Vangelis come diminutivo del suo «bellissimo nome»). Ci andavamo spesso, anche perché lui era un uomo avventuroso che veniva direttamente dalla Grecia, teneva prezzi molto ragionevoli, cucinava le cose che amavo e chiacchierava con me dei luoghi che entrambi tenevamo nel cuore, come la penisola peloponnesiaca del Mani, coi suoi villaggi ormai deserti dove ancora svettano le alte torri di difesa erette nei secoli dagli irriducibili manioti, gli unici greci che gli ottomani non riuscirono mai a sottomettere. Le mani di Evangelos mi davano serenità e offrivano amicizia; le sue parole raccontavano come una fiaba lontana il miele e il pane della sua terra, e a me pareva di rivedere il gigante barbuto che a Ghi­thion impastava pagnotte e pescava col mestolo di rame il miele nella conca alla sua destra, versandolo senza sprecarne una goccia nel vasetto che gli porgevo, inebriata dall’intenso profumo...
Volevamo festeggiare la fine del semestre universitario e l’uscita di un mio libro con una bella festa greca all’inizio di maggio, ma quella dolce primavera fu bruscamente interrotta. Carlo, il più piccolo dei miei fratelli, investito da una motocicletta, entrò in agonia negli ultimi giorni di aprile, e io tornai in Italia per dargli il mio addio. Ma Evangelos tenne fede alla sua promessa: fece la festa, presentò il libro agli amici e brindarono alla mia salute. E poi, Ulisse instancabile, disparve nel vasto mondo.