Ogni mappa ha un cuore di menzogna
di Franco Farinelli
Secondo Umberto Eco se una cosa non è “buona a mentire” non è buona a produrre cultura. Al riguardo le carte geografiche sono dispositivi culturali davvero speciali: sono sempre costrette a mentire, ma allo stesso tempo la maggior parte di esse confessa che tipo di bugia sta dicendo, e non di rado chi le guarda, se non è sprovveduto, riesce a capire anche la ragione della bugia in questione. Ogni carta geografica è insomma una menzogna, ma una menzogna per così dire onesta, perché contiene al proprio interno tutti gli elementi per poter essere smontata.
Questo accade perché il compito di ogni mappa corrisponde a una missione impossibile: trasferire su una superficie piatta qualcosa che invece è curva, come la faccia della Terra. Per la topologia, il settore della matematica che studia l’invarianza delle strutture a dispetto delle deformazioni, è chiaro da tempo: per quanti sforzi si faccia la tavola e la sfera sono l’un l’altra irriducibili, non possono cioè mai essere tradotte precisamente l’una nell’altra, ma qualcosa viene sempre falsificato nella trasformazione. La sfera infatti si compone di linee chiuse ma è illimitata. Se ne prenda in mano una: in apparenza è possibile individuarne con facilità i limiti, ad esempio quello superiore; ma basta farla ruotare un po’ per accorgersi che quella che prima sembrava la linea con cui essa finiva non è più la stessa, è stata sostituita da un’altra; e così via all’infinito. Al contrario i limiti di una mappa sono linee aperte e stabili, nel senso che si può rigirarla con le mani finché si vuole, essi non mutano affatto. Così ogni carta presenta di necessità delle distorsioni, che possono riferirsi alla forma delle cose, alle aree, alle distanze, alle direzioni, o agli intervalli tra le porzioni. Spetta al cartografo decidere a che cosa essere fedele, sapendo fin dall’inizio che tale fedeltà comporta di necessità l’incremento dell’infedeltà circa altri aspetti.
Proiezione è il nome moderno assegnato alla riduzione della sfera al piano, con un termine che non a caso proviene dall’alchimia, a significare la più mirabolante e incredibile delle mutazioni concepibili, quella per cui il mondo cambia la sua stessa natura. In altre parole: anche se l’organizzazione interna di una mappa risponde a criteri matematici e geometrici, l’intera rappresentazione obbedisce, prima d’altro, a un vero e proprio personale punto di vista, a un’opzione che non ha nulla di scientifico, non dipende da nessun criterio oggettivo, ma da una scelta che va riportata a un’intenzione soggettiva. Un’intenzione frutto non soltanto di uno specifico interesse pratico maturato nel quotidiano, aleatorio commercio con gli altri esseri umani, ma anche di una vera e propria generale visione del mondo intesa come la somma di tutte le verità, le credenze, le opinioni maturate dal cartografo nel corso dell’intera sua vita. A volte anche al prezzo di complicare la resa esatta di quel che sulla carta è possibile rappresentare in forma esatta.
Nel 1514 Johannes Werner mise a punto, sviluppando il secondo sistema insegnato da Tolomeo, un metodo di proiezione destinato per due secoli a un grande successo, che trasformava la faccia della Terra in un cuore o, nelle versioni più elaborate, in un paio di cuori, uno per emisfero. Sotto il profilo matematico non si tratta di una soluzione molto pratica. Ma come insegnava Henri Focillon, una volta prodotte le forme tendono ad autosignificarsi, veicolando contenuti che appartengono appunto non a quel che viene rappresentato, ma al mondo ideativo di chi le ha prodotte e di chi le contempla, fino a funzionare da segno di riconoscimento di una comunità.
Tutti i cartografi cinquecenteschi che adottarono la proiezione cordiforme di Werner si riconobbero in una modalità culturale molto vicina a posizioni ermetiche e riformate, quando non proprio direttamente affini alla teologia luterana. E ciò sulla base dell’analogia protomoderna tra microcosmo e macrocosmo: il cuore è al centro del corpo umano come la Terra è al centro dell’universo, ma è anche, come sede delle emozioni, centrale nell’esperienza di fede, oltre che emblema della carità, dell’amore reciproco, della fratellanza, della forza d’illuminazione.
Nel Settecento le proiezioni a forma di cuore furono abbandonate, ma ancora nel diciannovesimo secolo Heinrich Heine, il grande poeta tedesco che si considerava un’incarnazione del cosmopolitismo, così criticava l’angusto patriottismo del suo connazionale «che odia ciò che è straniero, che non vuole più essere cittadino del mondo, europeo [...]: il suo cuore si restringe e si ritrae come pelle al freddo».