Nonna Virginia, Dante e la torta di noci
La settimana scorsa, approfittando di alcuni giorni di forzata clausura e dell’aiuto di un’amica di alta statura e di una provvida scaletta, ho finalmente perlustrato alcuni scaffali alti della mia libreria, dove erano finite rimasuglie librarie assortite, provenienti negli anni da case famigliari svuotate: quei libri vecchi e consunti che portano sulla prima pagina ancora i nomi dei nostri vecchi, e che non si ha avuto il coraggio di buttar via, anche se sono stampati in caratteri piccoli e faticosi alla lettura, mancano di qualche pagina, e la carta appare ingiallita.
In mezzo a testi di scuola malconci, pieni di tracce mie e dei miei fratelli, ho trovato però un piccolo tesoro: un libretto con una robusta rilegatura di fine Ottocento, di un rosso cupo con eleganti ghirigori in nero che racchiudono il titolo Conversations in bei caratteri corsivi. All’interno, in ogni pagina una conversazione in francese col testo italiano a fronte: e sono deliziosi scambi di frasi di cortesia e di buon vivere, adatte alla fresca giovinetta che era nonna Virginia nel 1890...
Infatti c’è proprio lei nella prima pagina interna, che ha scritto il suo nome in grandi lettere rotonde impreziosite da qualche svolazzo, “Fiocco Virginia”. E io mi fermo e la vedo, pensosa e civettuola, come nella foto seppiata che è appesa nella mia camera. Ah, nonna Virginia, nata a Giacciano-con-Baruchella nella vecchia casa dei Fiocco, il mio ricordo di bambina non ti conserva così...
Eri sempre vestita di scuro. Alta e maestosa, con le gonne lunghe e il collarino bianco, non si poteva prendere con te troppa confidenza. Ti circondava una zona di misterioso rispetto; parlavi con noi bambini quando volevi; spesso non rispondevi alle nostre domande, ma poi, improvvisamente, ci regalavi un proverbio che si depositava intatto nella nostra memoria, o recitavi i primi quattordici canti dell’Inferno dantesco (che fluivano prodigiosamente dalle tue labbra uno dopo l’altro come un’unica melopea).
Poi c’era Pia dei Tolomei, le cui tristi vicende ci raccontavi ogni tanto, non so perché di solito verso il tramonto, quando veniva l’ora - per me e Lina, la mia amica del cuore - di andare a curare le piante di fagioli allineate lungo l’erta stradina che portava dalla piazzetta di Susin alla tua casa. Da allora, quei pochi versi ogni tanto me li ripeto, e li sento misteriosamente consolatori, per quell’incantevole antica gentilezza femminile che li pervade.
Nonna Virginia: quando la tua memoria cominciò a vacillare, ogni tanto ti scoprivo ad aprire il mobiletto con le tazze da tè e a frugare nel portabiscotti di cristallo intagliato a motivi floreali, dove purtroppo non trovavi più la tua superba torta di noci, perché non la sapevi più fare.
A cena, a capotavola, venivi servita per prima; ma quando il giro era finito, e tutti avevamo il piatto pieno, tu esclamavi sempre:«E a mi, gnente de ste bone robete?», pronta a ricominciare: il robusto appetito dei Fiocco non ti è mai mancato, e a me facevi allegria, mi si allargava il cuore. Eri così diversa da tua figlia, la mia mamma velocissima ed elegante, abile in ogni cosa e impazientissima coi cinque figli sventati «che non sembrano neanche tutti miei, tanto sono diversi fra loro», come ripeteva allegramente a chiunque. Ma io spesso mi sentivo un po’ orfana...