Mio padre Khayël, l’armeno che parlava veneto
Antonia Arslan
Mi capita in mano un numero di una rivista del 1932, “Le Tre Venezie”, finita chissà come in mezzo a uno scaffale di libri sul genocidio armeno. La copertina è sobria ed elegante, e sfogliando le pagine direi che abbia ancora un aspetto molto moderno, fitto di fotografie di bei mobili razionalisti, di ritratti di donna con capelli corti e riccioli provocanti, di pagine di pubblicità ben confezionate e benissimo impaginate. Ma sulla pagina interna, in alto come lui usava fare, c’è la firma di mio padre.
I testi si alternano accuratamente, con discreto spazio alla cultura: c’è un lungo servizio sulla Mostra del cinema, un pezzo di timbro nostalgico-lagunare su una poetessa oggi dimenticata, e infine un lungo articolo di Diego Valeri su Virgilio Giotti, poeta che scrisse in triestino e viene avvicinato a Biagio Marin, il quale usò sempre il dialetto di Grado, sua patria, dolce e aspro insieme, concreto e malinconico. E subito mi si presenta davanti agli occhi il volto largo e arguto di mio padre Khayël: l’armeno che non sapeva di esserlo, che credeva di non esserlo. Il giovane medico brillante e dalla battuta pronta che sapeva parlare il veneto elegante della chiacchiera di città e dei professori dell’università patavina, quando il Rettore lo si chiamava “Magnifico” con disinvolta familiarità, continuando poi la frase in dialetto.
Con Wart, il fratello maggiore, raffinato e coltissimo critico d’arte medievale e moderna, ma non altrettanto socievole e incline all’umorismo, aveva tuttavia in comune la volontà di tenere l’origine armena un po’ in disparte, come una bizzarria che li rendeva forse più interessanti, ma che non faceva parte della loro più profonda struttura culturale e umana. C’erano i parenti di Siria e del Libano, certo; c’era il cugino brasiliano che si chiamava come lui, e quelli americani che avrebbero poi combattuto con onore nella Seconda guerra mondiale; ma le loro esistenze, la loro realtà non toccava nell’intimo i due fratelli Arslan, che si sentivano prima di tutto partecipi della grande civiltà veneziana.
Le parole materne, la lingua intima era per papà il veneto: quello “delle piazze” di Padova (delle Erbe, della Frutta, dei Signori); ma soprattutto quello della poesia, che amava con silenzioso rispetto. Ed ecco perché aveva messo da parte il numero della rivista, e aveva sottolineato l’articolo di Diego Valeri, che è un’analisi accurata e un confronto affettuosamente partecipe fra i due poeti dialettali, uno in triestino, Giotti, e l’altro in gradese, Marin, accomunati dalla capacità sottile e affascinante di dipingere con pochi tocchi paesaggi e persone, accarezzandoli quasi di sfuggita con lievi ma precisissime pennellate impressionistiche. E mi torna la sua bella voce che modulava sapientemente il ritmo dei versi, certe rime leggere, il cambio di senso nelle strofe. Certo, pareva a entrambi che Biagio Marin andasse più a fondo, scavasse i suoi brevi versi quasi al limite dell’indicibile, «là – disse una volta quasi parlando a se stesso – dove la morte è vicina e appare come una sorella». E allora vado a cercare fra i suoi libri El mar de l’eterno, oppure La poesia è un dono, che Vanni Scheiwiller stampò nel 1961, e rileggo la dedica: “Ad Antonia, il papà – con poesie che rendono ‘amica’ la morte, ott. 1967”. E mi commuovo.