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Micheletti Il sogno di Peer Gynt è la pace

​Sta racchiuso in una ninna nanna il suono del sacro. La ninna nanna che Solveig canta a Peer Gynt alla fine del suo lungo viaggio. «Che è poi il viaggio della vita. Un viaggio dentro se stesso. Una lotta tra bene e male. Tra luce e ombra. Un percorso di formazione che diventa un cammino di redenzione. Il cui senso è racchiuso in quella ninna nanna». Per il baritono, attore e regista Luca Micheletti «c’è qualcosa di celeste nella musica che Edward Grieg scrive, chiamato da Henrik Ibsen a comporre musiche di scena per il suo dramma». Il Peer Gynt, appunto. Datato 1867 e andato in scena nel 1876 «grazie alle musiche di Grieg che hanno reso teatrale e rappresentabile un poema drammatico altrimenti difficile da mettere in scena».
Un testo, quello di Ibsen, «che per vocazione punta al palcoscenico, anche se in realtà l’approdo non si rivela così naturale per la visionarietà e la complessità del testo, di una lunghezza sterminata» riflette Luca Micheletti, cresciuto come attore nella compagnia di famiglia, “I guitti”, diventato poi regista e da qualche anno baritono tra i più richiesti sulla scena lirica mondiale, dal Teatro alla Scala al Covent Garden di Londra. «E per me, attore di prosa con la grande passione per la musica, è bello vedere che per rendere rappresentabile un testo titanico come il suo Peer Gynt Ibsen abbia pensato al linguaggio delle note. Goethe, per rendere rappresentabile il suo Faust, aveva pensato al metateatro, ricorrendo all’espediente del teatro nel teatro. Ibsen va ancora più a fondo e vuole la musica per il suo dramma, venato di feroce ironia nei confronti dei suoi concittadini che non lo consideravano profeta in patria». Ecco allora che Grieg «rendendo un grande favore a Ibsen scrive pagine che rivestono di sacralità il racconto. Una musica per nulla bozzettistica, che va a impastarsi bene con il testo in versi. Così la musica si fa poetica trasformando l’avventura di Peer Gynt in una parabola epica».
Un racconto «che ha un inizio un po’ noir e che pian piano ci porta in un percorso tutto mentale, in un vortice di incubi che spingono Peer ad una ricerca dentro se stesso» riflette Micheletti che, dopo aver presentato frammenti del Peer Gynt nel 2018 al Franco Parenti di Milano, questa estate ha lavorato al testo con i ragazzi del suo Belfort Theatre Campus a Piuro in Val Chiavenna, al confine tra Italia e Svizzera. « Abbiamo riportato Peer Gynt a casa, tra le montagne». Quelle evocate dalla musica di Grieg e dalle parole di Ibsen. Le montagne dove vivono i Troll, «che non sono folletti, ma i cattivi pensieri, i sensi di colpa di Peer. E che mi richiamano alla mente le visioni di Odilon Redon. Artista vissuto nella stessa epoca di Ibsen e di Grieg, pittore visionario, precursore del simbolismo, oscuro e tetro nelle sue raffigurazioni popolate di creature soprannaturali, emanazione della coscienza. Così come emanazione della coscienza di Peer sono i Troll».
Il sacro che è l’uomo nel racconto di Ibsen, e nelle note di Grieg. E, in qualche modo, anche nelle immagini inquiete di Redon che « fa lo sforzo di dare una forma a ciò che la parola fa presto a descrivere e che il teatro con i suoi mezzi finiti deve realizzare, perché il teatro con mezzi finiti deve dare forma all’infinito. E così le creature di Redon hanno grandi occhi, tante teste e vivono in un mondo dove è marcato il contrasto tra luce e ombra. Che è lo stesso di Ibsen e Grieg. Ed è curioso che Ibsen scriva il Peer Gynt, ma anche Spettri, drammi cupi e tormentati, nel sole della costiera amalfitana».
Luce dove c’è il sacro. Tutto racchiuso, riflette Micheletti, «nel confronto tra tenebre e luce di Peer Gynt, che cerca se stesso in una lotta feroce che dura tutta la vita. Trovandosi, alla fine, in Solveig, una donna angelo la cui figura si associa a quella della Madonna. Una donna intorno alla quale Peer ha costruito tutto il suo percorso di redenzione». Lei lo ha aspettato per tutta la vita e ha pregato. Accogliendolo poi tra le sue braccia. «Per cantargli quella ninna nanna intrisa di sacro. Una musica terrena, ma che ha dentro qualcosa di celeste».