Michelangelo, la morte è una madre
La Pietà che stava nel romano Palazzo Rondanini e che il Comune di Milano comprò nel 1952 per destinarla al Castello Sforzesco, è l’ultima opera di Michelangelo. A lei il Maestro dedicò gli ultimi pensieri e le ultime ore della sua vita. La testimonianza è di Daniele da Volterra, che gli fu vicino alla vigilia della morte. È il febbraio del 1564, l’ottantanovenne Michelangelo è solo nella casa-studio di Macel de’ Corvi mentre fuori, per le strade di Roma, infuria il Carnevale e Daniele da Volterra così scrive: «Egli lavorò tutto il sabato, che fu inanti al lunedì che si ammalò; lavorò tutto il sabato della domenica di carnevale, e lavorò in piedi, studiando sopra quel corpo della Pietà». “In piedi” e “studiando”: le due espressioni non sono scelte a caso. “In piedi” perché il confronto con l’arte è, appunto, un duello, un indomito affrontamento; “studiando”, a significare che per Michelangelo l’espressione figurativa è stata sempre, fino all’ultima vigilia, ricerca, rovello mentale, strenuo sperimentalismo.
La prima interpretazione critica documentata della Rondanini ci arriva da una fonte del tutto imprevedibile. L’autore non è un artista e neppure uno storico dell’arte ma un oscuro burocrate, un piccolo funzionario del Tribunale di Roma. Il 19 febbraio 1564, il giorno dopo la morte di Michelangelo, per mandato del governatore, viene stilato l’inventario delle cose esistenti nello studio dell’artista. Si capisce perché. Il personaggio appena defunto era l’artista più celebre d’Italia e d’Europa. Le sue opere, anche quelle non finite, al pari dei bozzetti e dei disegni, avevano un alto valore di mercato, collezionisti e amatori di gran rango si contendevano le testimonianze della sua arte. L’adempimento ordinato dal Tribunale, niente più che un elenco a uso giudiziario e quindi veloce e sintetico come sempre in questi casi, era dunque necessario. Ma ecco come l’impiegato in questione descrive la Rondanini: «Un’altra statua principiata per un Christo con un’altra figura di sopra, attaccata insieme, sbozzata e non finita».
Il funzionario del governatore è così sommario nella descrizione (e forse così imperito) che non arriva neppure a definire correttamente l’iconografia, eppure scrive che quelle figure, sbozzate e non finite, sono “attaccate insieme”. Il cuore poetico della Rondanini sta tutto qui, in quel corpo di Cristo che si “attacca” alla Madonna come per annullarsi in lei, come per rientrare nel grembo materno. La faticata elaborazione della scultura oggi a Milano puntava a questo obiettivo, un obiettivo al quale Michelangelo si è avvicinato per gradi, attraverso un lungo numero di anni, procedendo per mutilazioni crudeli, per drastici rifacimenti, assottigliando e scarnificando il gruppo plastico fino a dargli l’aspetto che conosciamo.
Ancora alla vigilia della morte Michelangelo “studiava” (per usare l’espressione di Daniele da Volterra) affinché quell’idea (il Cristo che fa tutt’uno con la Madre, le due figure l’una all’altra attaccate) arrivasse all’ultima perfezione.
Il rapporto della Madre con il figlio è un argomento costante nella poetica dello scultore. Lo aveva affrontato per la prima volta nella Pietà di San Pietro, firmata e datata al 1499, quando aveva ventiquattro anni. Ci torna sopra nei suoi anni tardi, dominato dal furore e dalla “incontentabilità”, nella Pietà oggi nel fiorentino Museo dell’Opera del Duomo.
Ora, al termine della vita, torna per l’ultima volta sull’argomento. Si dice che quando un uomo sta per morire ritorni miracolosamente bambino. Nel flashback vertiginoso della vita che si consuma, le ultime immagini appartengono all’infanzia remota, gli ultimi pensieri sono per la madre. Il pensiero semplice e antico della morte come ritorno alle origini e quindi alla madre, occupava la fantasia del quasi novantenne Michelangelo: vicino a morire e solo, nell’inverno del 1564, di fronte alle due figure “attaccate insieme”.
Questo non esclude il pensiero religioso profondo, vera e propria teologia d’avanguardia, che abita la Pietà Rondanini. Più che mostrare il sacrificio, l’ultima scultura di Michelangelo mostra lo stato spirituale che dal sacrificio di Cristo discende. L’umana sensazione, consolante e pietosa, della morte come ritorno alla madre, non contraddice la riflessione sul cristiano transito «dalla orribil procella in dolce calma».
di Antonio Paolucci