alba e la notte di Borges, il veggente
Quale guida migliore di un aedo cieco per conoscere le vie e le piazze, il popolo e l’anima di una città lontana? Ci siamo appassionati alle vicende epiche e sublimi dell’incendio e della distruzione di Troia, abbiamo seguito le battaglie nella polvere e nel sangue di una guerra spietata: vedevamo gli eserciti, il mare e la pianura davanti alla rocca, il cavallo e l’astuto Ulisse ed Elena dai capelli d’oro. Ma in tutta questa avventura eravamo tenuti per mano dal cieco Omero, il cantore incomparabile di dei e di eroi, della tenerezza di Ettore per il figlioletto come della furia vendicativa di Achille.
Nei mesi scorsi fu un altro cieco di sottile, ma caldo ingegno, Jorge Luis Borges, a essermi guida accorta e illuminante nella scoperta di un’altra realtà unica, fonte di innumerevoli storie, la grande Buenos Aires. Ho molto letto e sempre amato i suoi racconti, spesso capaci di creare un’atmosfera speciale, moderna ma immersa in una dimensione atemporale che rintocca nella mente del lettore con echi assai profondi. Tuttavia, conoscevo poco la sua poesia, finché Giovanni, un caro amico romano, in una tiepida sera di settembre mi lesse alcune pagine e poi mi regalò la raccolta Fervore di Buenos Aires. Là scopersi la città e il suo cantore, seguii la musica di quella guida e feci un viaggio incantato. Non le folle eccitate, il tango, i colori accecanti, ma l’alba – in cui di lei rifiorisce il nome e l’anima, e nel limpido chiarore del cielo la sua forma pura rinasce. Poco dorme il poeta. Se, dice «questa numerosa Buenos Aires / non è che un sogno / che in condiviso sortilegio erigono le anime, / c’è un istante in cui / la sua esistenza è smisuratamente a rischio / ed è l’istante trepido dell’alba, / quando sono pochi a sognare il mondo / e solo qualche nottambulo conserva / cenerina e appena abbozzata, / l’immagine delle strade [...] l’ora in cui il sogno ostinato della vita / corre il pericolo di infrangersi / l’ora in cui sarebbe facile a Dio / distruggere del tutto la Sua opera...».
Ma è colui che veglia a salvare l’essenza della città, anche se Borges possiede solo gli occhi della mente; e allora il mondo, per un istante in bilico fra sogno e realtà, riprende a girare: «Con qualche rimorso / d’essere stato complice nella rinascita del giorno / raggiungo la mia casa / mentre la notte consumata / è rimasta negli occhi dei ciechi.» Lui ci conduce per tutti i momenti del tempo, perché la città vive nel tempo le stagioni della sua bellezza: «Là fuori c’è un tramonto, gemma oscura / incastonata nel tempo, / e una profonda città cieca / di uomini che non ti videro. / La sera tace o canta. / Sempre, la numerosa tua bellezza»: una bellezza molteplice, dove ogni sogno d’uomo trova luogo e spazio.
di Antonia Arslan