Le verità intime di Sassetta
Madonna delle ciliegie si chiama la tavola custodita nel Museo Diocesano di Grosseto. È un capolavoro, di certissima attribuzione, del grande e per molti aspetti misterioso maestro senese del primo Quattrocento conosciuto come il “Sassetta”, anche se risponde al nome anagrafico di Stefano di Giovanni di Consolo. Morto nel 1450, il Sassetta risulta operoso negli anni Trenta e Quaranta del XV secolo a Siena e nella Toscana interna. La sua fama si affida a opere celebri quali la Madonna della neve (polittico già Contini Bonacossi, oggi agli Uffizi) e l’affascinante retablo di Borgo Sansepolcro, oggi disperso in vari musei, con l’immagine del San Francesco in estasi custodita nella Collezione Berenson di Settignano.
Il Sassetta è uno squisito “reazionario” al pari di tutti i maestri senesi del Quattrocento. “Reazionario” perché alle radici della sua cultura figurativa c’è la Siena del Trecento, la Siena fulgida, aulica e ultraraffinata di Duccio, di Simone Martini, dei Lorenzetti: oro su oro, oro operato su oro operato e lampi rossi nell’oro, figure elegantissime, aristocratiche, che sembrano chiedere la cortesia – direbbe Cesare Brandi – di una traduzione in persiano o in cinese. Questa cultura che, all’inizio del XV secolo, si muove in parallelo e si mescola con quella che chiamiamo del “Gotico internazionale”, la vediamo dispiegata nella Madonna della neve, già Contini Bonacossi. La Madonna in trono, come un lucente gioiello incastonato in un gomitolo d’oro, è un’apparizione celeste, una epifania della gloria del Paradiso. La Madonna è una regina che gli angeli musicanti allietano con le loro melodie, è una sovrana che i santi dislocati ai suoi lati onorano come portatrice di ultraterreno splendore.
Eppure il Sassetta non è estraneo alle novità che venivano dalla Firenze di primo Quattrocento, dalla Firenze di Masaccio, del Beato Angelico, di Donatello.
La sua permeabilità alle novità fiorentine che in quegli anni volevano dire controllo prospettico dello spazio figurato, studio dell’anatomia, delicata analisi della realtà fisionomica, emotiva e psicologica, è il suo principale carattere distintivo. Lo vediamo negli episodi della predella del polittico di Sansepolcro (Londra, National Gallery), vere e proprie scatole prospettiche all’interno delle quali Francesco compie i suoi prodigi: ammansisce il lupo di Gubbio, presenta la regola al papa, incontra il sultano, riceve le stigmate sullo scoglio della Verna. Lo vediamo nella Elemosina di san Martino della senese collezione Chigi Saracini, una tavoletta piccola e preziosa dove il mendico ignudo, al quale il cavaliere Martino offre la metà del suo rosso mantello, sembra tremare nel gelo della giornata invernale, come trema il nudo di Masaccio nel Battesimo dei neofiti nella cappella Brancacci al Carmine di Firenze.
L’attenzione alla natura, agli infiniti veri che popolano il mondo, è una presenza costante nella pittura del Sassetta. L’Adorazione dei Magi (anch’essa nella Collezione Chigi Saracini) forse memore del dipinto di uguale soggetto di Gentile da Fabriano, agli Uffizi, resta memorabile per il nano che, in primo piano, regge la spada del suo biondo signore, per i cavalli che scartano in secondo piano, per i cani che si agitano festosi ai piedi della santa culla, per le corna del bue e le orecchie dell’asino che emergono sullo sfondo quasi a voler significare che anche loro, i custodi della mangiatoia, si sentono legittimi protagonisti o almeno comprimari dell’Epifania.
Quando poi dipinge nella predella della Madonna della neve la storia della miracolosa fondazione della basilica di Santa Maria Maggiore sul colle Esquilino di Roma, il Sassetta naturalista dà il meglio di sé. Rappresenta lo stupore del papa e dei suoi cardinali di fronte alla miracolosa nevicata che, una notte di agosto, aveva definito il perimetro della chiesa voluta dalla Vergine, si sofferma sul febbrile lavoro di muratori e manovali operosi nell’improvvisato cantiere, indugia sull’asino dal quale è appena sceso l’architetto direttore dei lavori. Soprattutto il Sassetta descrive il cielo striato di nuvole bianche che si sfrangiano toccate dal vento e slontanano verso l’estremo orizzonte a misurare la profondità della prospettiva aerea.
Ed ecco la Madonna di Grosseto, opera della piena maturità dell’artista, probabilmente conclusa nell’anno stesso della sua morte, il 1450. La tavola ha subito riduzioni, è stata accorciata e mutilata nell’altezza e forse anche sui lati. Secondo una ipotesi di John Pope-Hennessy, è possibile che la tavola grossetana sia stata, all’origine, la parte centrale di un polittico firmato “Stephanus Joannis me pinxit” che le antiche guide di Siena (1625 e 1697) dicono presente nella cappella Petroni, in San Francesco.
Comunque siano andate le cose, oggi la tavola, che le vicende della storia hanno affidato al Museo Diocesano di Grosseto, ci consegna un tenero messaggio di intimità familiare, di affetto materno.
La Madonna tiene nella mano sinistra un pugnello di rosse ciliegie e le offre al suo bambino che ne ha già presa una e la sta mangiando. Se proprio dovessi indicare, in area fiorentina, un precedente degno di essere messo a confronto con questo capolavoro, non avrei dubbi. Indicherei la Madonna del solletico di Masaccio conservata agli Uffizi. Anche lì è la tenerezza (le coccole di una mamma alla sua creatura) la protagonista del dipinto.
«L’attenzione di Sassetta per le conquiste della prima Rinascenza fiorentina per il dominio della prospettiva e delle forme plastiche, si manifesta nella tendenza a sintetizzare in forme geometriche pure a tre dimensioni, indipendentemente dalle suggestioni fornite dalla realtà». Così Enzo Carli, eminente studioso del Sassetta parla di questo dipinto nella sua monografia del 1958.
In effetti è così. Il corpo nudo del Bambino argomenta lo spazio segnando la profondità prospettica, la testa della Vergine sembra girare come una sfera luminosa sulle broderies dorate della veste. Nel dipinto un intellettualismo estremamente sofisticato, un raffinato controllo delle forme anatomiche e delle profondità prospettiche, si sposano a un sentimento sottilmente e teneramente affettuoso. Ed è questo, il Bambino che mangia le ciliegie raccolte per lui dalla sua mamma, l’aspetto che rende indimenticabile la Vergine di Grosseto.
di Antonio Paolucci