Le tavole di Van Loon
Buon cibo, bella tavola, conversari piacevoli con la pancia piena. Si riduce solo a questo l’auspicato esito di un buon pranzo, a quella sensazione di rilassata benevolenza verso noi stessi e gli altri commensali, chiusi per il tempo di una serata in un cerchio magico di compiaciuta beatitudine?
Rileggevo mesi fa, per ristamparlo, un magnifico libro che ha accompagnato la mia infanzia, Le vite di Van Loon, dono sapiente di una zia Agnese, donna imponente e rassicurante, per il mio ottavo compleanno. Allora lo percorsi al galoppo, curiosa e affamata di ogni dettaglio, incantata dalla geniale trovata dell’autore: le fantasmagoriche cene che, seguendo un piano ben congegnato col suo amico Frits, aveva avuto l’idea di offrire a grandi personaggi della storia e della letteratura, fisicamente morti, ma il cui spirito poteva senz’altro ridestarsi con gioia davanti alla prospettiva di una cena ben curata, con ospiti gradevoli e stimolanti. E infatti, importante quanto quella delle vivande era la scelta dei commensali: che stessero bene insieme, che navigassero – come caratteri, stili di vita, destini – su lunghezze d’onda che si potevano incontrare, che potevano anzi potenziarsi e illuminarsi a vicenda.
Alle serate nella cittadina olandese di Veere gli invitati arrivano con tutto il carico della loro vita – spesso infelice, sempre combattuta –, del loro peculiare genio, delle loro passioni e idiosincrasie. Scintille esplodono dall’incrociarsi delle loro spade mentali, dallo splendore delle loro intelligenze che si confrontano; e di ciascuna Van Loon si fa interprete lucido e appassionato, componendo con i cibi offerti la scena di un armonioso, caldo interno che spesso evoca uno dei sontuosi dipinti dei maestri del Seicento olandese.
Il libro esce nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, e questo ha un senso profondo e coraggioso. Facendo incontrare vivi e morti, l’arzilla cuoca e i grandi del passato, Chopin ed Emily Dickinson, Teodora di Bisanzio ed Elisabetta d’Inghilterra, van Loon ci fa sperare che gli uomini riusciranno a evadere dalla disumanità e dall’orrore che li circondano, a tornare a più civili costumi: e ce li pone davanti, con impagabile freschezza e un po’ di beffarda ironia, con le gambe allungate sotto la tavola, a parlare di cose da nulla – ma anche di massimi principi. Tavola e cibo compongono un sistema, un ambiente protetto, dal quale assorbiamo l’energia buona che si oppone ai pericoli e alle fragilità della vita di ogni giorno. Quando la stanchezza si insinua nelle membra e ci insidia, le nostre difese calano: ogni cellula del corpo anela a cibo e riposo, ogni cellula della mente a parlare senza doversi guardare le spalle. Forse stare a tavola non ci allunga la vita, certo la rasserena.
di Antonia Arslan