Le lacrime armene di Beirut
Tornare in Libano, dopo tanto tempo. Rivedere Beirut e Biblos, sulle orme di quel viaggio con i miei, quando andammo a visitare i parenti di Libano e di Siria. Gli zii di Aleppo sono morti, e i cugini di Damasco e di Beirut vivono lontani, in New Jersey e in New Hampshire, in Brasile, a Parigi, sparsi per tutto il vasto mondo. Ma il Paese dei Cedri ancora resiste, nel tragico, epocale sconvolgimento che è in atto in tutto il Medio Oriente.
È stato come un abbraccio, come un grande, festoso riconoscersi, quello con gli armeni di Beirut. Il posto dove furono accolti i sopravvissuti dopo la tragedia del genocidio, sui lidi allora disabitati dove gli scampati si ritrovarono, vissero in tende e poi con lunga pazienza costruirono casette di legno coi loro orticelli davanti, e infine vere case, e palazzi, e chiese, le tante chiese della città. Qui vedi davvero chiese e moschee poco distanti, ma oggi il pericolo è dietro l’angolo, e lo sfacelo della Siria preoccupa e angoscia. E tuttavia le scuole armene funzionano, e così l’università, i valorosi capi della comunità non vogliono arrendersi, pensare a un nuovo esodo, che sarebbe terribile. Così nel bellissimo centro culturale dell’AGBU (l’unione di beneficenza armena) le istituzioni italiane e quelle armene si sono abbracciate nel ricordo del 1915, davanti al film dei fratelli Taviani ispirato al mio libro, La masseria delle allodole.
Ma il giorno prima mi sono riempita di ricordi vivi, brucianti, attraverso un’esperienza straordinaria in un orfanotrofio che fu allestito per i “bambini perduti” sopravvissuti alla strage delle loro famiglie, e ho finalmente capito con gli occhi della mente e del cuore ciò che avvenne dopo il genocidio. Torme di bambini affamati vagavano per le strade di Aleppo, la prima meta delle deportazioni, e ci fu chi li raccolse. Il terzo uomo del triumvirato al potere nell’impero ottomano, Djemal Pascià, era là, capo dell’armata di Siria. E nel collegio dei Padri Lazzaristi ad Antoura – con l’aiuto del più celebre personaggio femminile del gruppo dei Giovani Turchi, Halide Edib – ne collocò più di mille, per un programma spietato di turchizzazione forzata: obbligati a cantare gli inni nazionalisti, bastonati se parlavano la loro lingua, affamati, privati di tutto. Molti morirono, e di loro si era persa ogni traccia: ma le loro ossa, recentemente ritrovate sotto il cemento, ora riposano in un piccolo sacrario ai bordi del collegio.
Era uno splendido giorno di inizio giugno. Maida Kuredjian, che si è battuta come una leonessa per costruirlo, piangeva raccontando la loro storia: e nel cimitero dei bambini, tra i fiori e all’ombra di antichi cipressi, cantammo e piangemmo tutti insieme quelle dimenticate piccole vittime del “Grande Male”.
di Antonia Arslan