Le bambine di Matilde Serao, la pietà verso gli invisibili
La sofferenza dei bambini suscita commozione, empiti di solidarietà, riflessioni, che sembrano a volte fin troppo compunte e seriose, eccessive: e tuttavia è vero che la vista di un bambino terrorizzato, denutrito, preso in mezzo a guerre e combattimenti, smuove qualcosa dentro di noi, ci interroga, ci coinvolge.
Il chiacchiericcio enfatizzante dei giornali poi spegne l’attenzione, in un sovrabbondare di immagini e parole in continua evoluzione emotiva, tenute a livello altissimo per un paio di giorni e poi cacciate nell’oscurità, dimenticate: sicché, se un lettore è genuinamente interessato a un argomento, non gli sarà facile continuare a saperne qualcosa. Passata la prima ondata, sembra che a nessuno importi più sapere l’esito delle storie che riempivano le prime pagine.
Questo è certo un dato negativo, di una superficialità banale, che molti biasimano, pur essendo magari poi ghiotti di foto strappalacrime, di notizie spezzacuore. Eppure noi siamo già meglio dei nostri bisnonni. Spesso sentiamo elogiare il buon tempo antico, come i cibi di una volta o le verdurine dell’orto vicino; ma spesso e volentieri anche dimentichiamo quanto la società di cent’anni fa fosse rigidamente divisa in classi che si frequentavano ma non si mescolavano quasi mai (aldilà delle convenzioni romantiche degli amori folgoranti fra principi e povere pulzelle). Era una questione di reciproca utilità: intorno alle case signorili gravitavano mille mestieri, ciabattini e sarte a giornata, lavandaie e levatrici... Le vite si intrecciavano per necessità, non per piacere o per riposo condiviso.
E verso i reietti, i più poveri c’era l’oblio: erano invisibili. Ma in modo particolare lo erano gli ultimi fra i reietti, i bambini; e fra questi, le bambine. Matilde Serao, che fu grande scrittrice oltre che giornalista eccezionale, dedicò a loro nel 1883 un libretto di racconti, Piccole anime, di straordinaria tenuta espressiva. Sono racconti brevi, di un realismo incisivo e potente, che donano la visibilità dell’arte ai piccoli personaggi di cui nessuno si occupava, alle umili vite spezzate delle bambine sfruttate e derelitte, abbandonate come merce scadente – e soprattutto sempre affamate.
La rappresentazione del tema della fame raggiunge effetti di straordinaria drammaticità nella descrizione dei corpi delle bambine protagoniste di racconti come Una fioraia e Canituccia: inconsapevoli vittime, che non sanno neppure concepire un altro modo di esistere. Sugli ambienti di sfondo, sordidi e oscuri, dove si svolge la battaglia per la sopravvivenza della miserabile plebe napoletana, nei bassi maleodoranti dove la vita di un bambino conta ben poco, emerge la pietà materna dell’autrice verso quei corpicini femminili disincarnati, ma anche la sua volontà di testimonianza e di rappresentazione.
La piccola fioraia muore quando – dopo tanto elemosinare col suo mazzetto di fiori sgualciti in mano – riceve un soldo e si compra un panino caldo, ma nell’ebbrezza del cibo attraversa la strada di corsa e viene investita da una carrozza. E la sua immagine si trasforma: gli occhi «troppo grandi, dalla palpebra bigia, incavernati, profondi» diventano «grandi occhi meravigliati e dolorosi che guardavano il cielo»: un agnello sacrificale, una piccola Madonna pascoliana.
di Antonia Arslan