La formidabile memoria di mio cugino Yerwant
di Antonia Arslan
Noi eravamo una marea di cugini: fossero cugini primi o secondi o terzi, non importava, ce n’erano dappertutto. Mia madre diceva con orgoglio che ne aveva trenta, di primi; si incontravano tutti il due novembre a Lendinara, la loro città d’origine, per ricordare i loro morti. Si ritrovavano là; poi andavano tutti insieme, molto compunti, in cimitero, omaggiavano i numerosi defunti di ognuno di loro, e infine compivano il rito del pranzo. Mangiare insieme quel giorno era per tutti loro una cosa serissima e grandiosa, con molte portate, il rito della polentina con le schidionate, buon vino rosso e il maestoso zabaione coi biscottini alla fine.
Ben diversa era la situazione dei cugini di parte Arslan, che erano pure tanti, ma stavano in posti lontani: Siria, Libano, Brasile, Stati Uniti... Qui in Italia, papà aveva un solo fratello, che viveva a Milano, con tre figli molto educati e intelligenti; due erano un po’ più grandi di me. Ed è proprio con il secondo, che si chiamava Yerwant come il nonno, che scoprii una grande affinità, che presto divenne un’amicizia stranamente profonda che durò per tutta la sua vita, avvolta in una sottile complicità affettiva. Ma all’inizio fu solo uno scambiarsi opinioni su autori studiati a scuola e impietose descrizioni di professori; poi passammo alle gelose letture personali e al divertimento che entrambi provavamo nell’esercitare la memoria.
Yerwant, prima di tutto, portava l’esotico nome del nonno, e di questo io lo invidiavo moltissimo. Come mi sarebbe piaciuto esibire uno dei nomi armeni di ragazza, soavi e strani, come Nairì, Shushàn, Iskuhì, Zabel, invece del solido Antonia, quanto più comune! E qualcuno osava perfino provare a chiamarmi Antonietta... Lui aveva una lingua fredda e tagliente che sapeva padroneggiare le discussioni, mentre io mi arrabbiavo facilmente e mi reggevo piuttosto sul puntiglio e la testardaggine: non era facile persuadermi, anche quando dentro di me sapevo che l’altro aveva ragione, e non avevo ancora imparato a usare l’ironia, così utile sempre.
Ma quando, nella primavera della mia terza liceo, mentre si avvicinava l’esame di maturità, mio cugino venne a trovarmi – tutto fiero del suo secondo anno di ingegneria al Politecnico di Milano – e si esibì nel recitarmi l’intero carme dei Sepolcri di Foscolo, impeccabilmente dal primo all’ultimo verso, dopo un momento di pura, rabbiosa invidia, decisi di cedere le armi. Era più bravo di me, ammisi, ma anch’io non ero da buttar via. E così la sfida si risolse in una gara deliziosa, che ci immerse nell’universo, che amavamo entrambi, dei versi di tutti i generi e di tutte le epoche. Cadenzati o lievi, delicati o pieni di echi, si dilatavano nelle nostre menti in uno scintillio di ragnatele sonore e di ritmi che danzavano e si intrecciavano fra loro – dandoci gioia e insegnandoci a condividere misteriose armonie di parole.
Fu un giorno importante – per entrambi. Credo che entrambi, per un momento, accarezzassimo l’idea di innamorarci; ma presto ci apparve chiaro che si apriva invece davanti a noi la possibilità di un’amicizia incrollabile, generosa, priva di ombre. E fu così, con una fiducia serena che avrebbe attraversato i decenni e ci avrebbe accompagnato per tutta la vita; discreta, poco evidente talvolta, ma piena di ironica dolcezza.