La felicità abita al Nord
Da quali lontane profondità della mente sei riemersa ieri sera tu, May Steen-Olsen, amica norvegese alta e robusta il doppio di me, la bella vichinga bionda con cui ho passato alcuni mesi fra i più intensi della mia vita?
Avevo appena compiuto diciott’anni, e passato l’esame di maturità, quello di allora, che finiva verso fine luglio: per me, ricordo, l’ultimo orale fu il 18, in un giorno di caldo opprimente, umidità pervasiva e sole velato, tipici doni delle estati padane. Pochi giorni dopo partii verso il Nord: mi ero iscritta a un corso estivo alla Fridtjof-Nansen-Haus di Göttingen. Mi ero fissata sull’imparare il tedesco, e un motivo c’era: volevo diventare archeologa, e mi pareva logico studiare la lingua dei fondatori dell’archeologia moderna. Così almeno raccontavo: la verità - meno nobile - è che non volevo accontentare mia madre, che parlava un ottimo inglese e ci teneva moltissimo.
All’Europa-Kolleg della Nansen-Haus venivamo davvero da tutta Europa. Dall’Italia però solo in tre, io e due milanesi, studenti di medicina: il primo, che aveva il viso butterato e un ghigno fascinoso, era soprannominato “il coccodrillo”, e non riuscì mai a pronunciare le tante gutturali di cui il tedesco abbonda; del secondo, Bruno, mi innamorai - ma questa è un’altra storia. Oggi mi riempie il cuore aver sentito l’improvvisa presenza di May: mi torna in mente il suo sorriso contagioso e il suo carattere solare, e come mi insegnò a condividerlo. Era una persona semplicemente buona, di una bontà ingenua. Figlia di un armatore di Trondheim, ogni mese spendeva il suo mensile in pochissimo tempo, e poi... stringeva la cinghia, accontentandosi del mesto cibo della Nansen-Haus, la cui specialità, offerta almeno un paio di volte a settimana, era una zuppa di latte e cipolle quasi crude.
Dopo le tre settimane del corso estivo, divertente - ma non così istruttivo - durante il quale strinsi amicizie forti (che contarono molto per me e per la mia crescita personale), solo May e io restammo a Göttingen per il semestre invernale fino a Natale; a noi si aggiunse una ragazza tedesca di Frankfurt an der Oder, Suse Fusch, malinconica e doverista, che ci voleva bene e perciò ci sgridava continuamente. May adorava comprarsi vestiti, e a me piaceva seguirla appena arrivava l’assegno di suo padre. Era così bello vedere come li spendeva... Faceva regali a tutti, perché tutti fossimo felici; e comprava dolci, cioccolata e una bella bottiglia di rum per farci cantare (ancora non so perché proprio il rum, ma ricordo la bottiglia mensile, ed era sempre uguale).
Una volta, mentre si provava una gonna che le era troppo stretta, si fermò a metà dell’operazione e mi confessò, meditabonda: «Domani sarò senza soldi di nuovo e non potrò pagarmi neanche il biglietto dell’autobus per il centro città. Ma non posso chiederli a mio padre. Si vergognerebbe di me, e questo io non potrei sopportarlo». Molto ragionevolmente, io dissi: «Ma non puoi smettere di comprarti gonne?». E lei: «Potrei, ma non voglio. Guarda gli occhi felici della commessa. Mi vede ogni mese, ormai siamo amiche!». Si sbarazzò della gonna stretta, poi prese per mano me e la venditrice felice e ci trascinò in un ballo indiavolato attraverso il negozio, cantando.