La chiesa granaio di Steffann
Mario Botta
Passione, mestiere, astuzia e poesia sono parole che potrebbero riassumere un’avventura progettuale che ha avuto luogo ai margini della ricostruzione post-bellica tedesca in Francia e che, nel contempo, ha anche segnato un rinnovamento tipologico ecclesiale nell’architettura moderna.
Protagonista è l’architetto tedesco Emil Steffann che a Boust, in Lorena, nel 1942, realizza un’architettura rurale (poi andata distrutta) di grande importanza ideologico-architettonica, poiché interpreta le spinte innovative del movimento giovanile cattolico “Quickborn”, formatosi al castello di Rothenfels negli anni Venti del secolo scorso con il coinvolgimento dell’architetto Rudolf Schwarz e del teologo Romano Guardini.
Nell’ambito della pianificazione di un’edilizia rurale l’architetto, per sfuggire alle direttive naziste che non permettevano le edificazioni religiose, realizza un fienile-granaio collettivo che avrebbe poi permesso un riuso come spazio ecclesiale. L’interesse di questo intrigo risiede nelle affinità che Steffann riconosce alle due funzioni: quella di un contenitore agricolo e quello di uno spazio comunitario di preghiera. Ciò che può apparire come una disinvolta emergenza dovuta alla situazione post-bellica, in realtà risponde a una convinzione ideologica e poetica di un linguaggio rigoroso, dove le componenti fondative dell’opera d’architettura vengono riconosciute nei principi costruttivi e non nelle attribuzioni funzionali, simboliche o metaforiche.
Steffann predilige materiali semplici – pietre, mattoni e legno – preferibilmente di recupero, tipologie elementari proprie della tradizione rurale, e adotta tecniche che permettono di «costruire in coerenza e fedeltà con i materiali, […] agire in conformità al principio costruttivo, sviluppare le modalità dell’edificare partendo dal materiale impiegato, […] realizzare la costruzione più adeguata al materiale stesso».
Come si può dedurre vi è un linguaggio colto del saper costruire. Gravità e semplicità sono le ragioni primarie, volutamente elementari nelle forme espressive: «Se non c’è conoscenza sensoriale, la verità assoluta mi è incomprensibile», aggiunge l’autore.
L’architetto riafferma il primato tettonico, come annota il critico Gisberth Hülsmann: «L’arco, il muro, il tetto sono innanzitutto un arco, un muro, un tetto: che importanza può avere il fatto che quattro colonne rappresentino i quattro evangelisti? Quattro colonne sono quattro colonne entro cui si crea un luogo, si esprime uno spazio».
Osservazioni che evidenziano la consapevolezza teorica di Steffann, un atteggiamento riaffermato anche da Louis Kahn ma ignorato dal cosiddetto post-moderno, e di recente ripreso dai movimenti etico-ambientalisti.
Ma di Emil Steffann ricorderemo la chiesa-granaio anche per l’astuto accorgimento segreto dell’inserimento, là dove vi è la chiave di volta del timpano esterno, di un frammento in pietra (l’agnello o la croce?) simbolo del Cristo, nascosto con l’argilla al momento della costruzione per permettere allo scorrere delle intemperie e del tempo di svelare, solo dopo decenni, l’identità di questa enigmatica e bella costruzione.