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La cappella di terra della Pampa

​Fra le immense distese fertili delle Pampas argentine, nella provincia di Cordoba, a 700 chilometri da Buenos Aires, lungo una strada per lo più utilizzata dai grossi autocarri a servizio delle tenute locali votate all’agricoltura e all’allevamento, si distingue questa sorprendente cappella progettata da Nicolás Campodonico, destinata presumibilmente a essere un luogo di ritiro e riflessione nel bel mezzo di una natura incontaminata.
L’interesse di questa architettura risiede, da un lato, nella scelta del sito “fuori dal mondo” e, dall’altro, nella radicalità delle soluzioni progettuali che offrono stimoli di riflessione sulle origini stesse del costruire: l’atto di porre pietra su pietra, e pietra sulla terra, eludendo tutti quegli aspetti sovrastrutturali (dalle finiture al comfort) che, invece, costellano la disciplina dei nostri giorni. L’essenzialità del fare architettonico si concentra sulla “gravità” e sulla “luce” come princìpi in grado di illustrare una nuova consapevolezza critica per gli architetti dopo l’ubriacatura consumistica di una società edonistica cresciuta negli ultimi decenni.
La scelta di progettare una cappella (luogo di sosta, di riflessione e di preghiera) con un unico materiale di costruzione - i mattoni di terracotta recuperati da una precedente abitazione - per realizzare murature, volte, solai e pavimentazioni, si risolve in un’omogeneità di stampo primordiale, in un’allure di memoria che gli architetti sembrano aver dimenticato e che, qui, si configura come una decisione eticamente coraggiosa. La radicalità del gesto architettonico si è poi estesa anche all’illuminazione naturale grazie all’apertura zenitale della copertura che cattura totalmente il ciclo solare durante i 365 giorni dell’anno. Una costruzione eretta come se fosse una grande scultura; un modo per meglio valorizzare il potenziale plastico di luci e ombre nelle articolazioni spaziali offerte ai fruitori. Questa “scultura da abitare”, liberata dalle finiture e dagli orpelli formali, ha permesso di riportare l’architettura alle sue forme ancestrali e ha fatto sì che siano i tracciati delle geometrie a modellare la qualità degli spazi. Spazi essenziali e semplici per una lettura che vuole trasmettere aspetti simbolici e metaforici.
Questa cappella, straordinario scrigno tra cielo e terra, diviene anche una bella lezione soprattutto per gli architetti “tecnologici”, perché mostra come sia talvolta indispensabile saper levare quanto è superfluo per donare icasticità alle forme primarie. Mi sembra che questa semplice costruzione esprima al meglio la potenza espressiva di uno spazio “sacrale”. Il contrasto fra la natura infinita del paesaggio - con dimensioni sconosciute nella loro vastità - e uno spazio necessariamente intimo - che conserva una dimensione domestica - obbliga l’osservatore a un confronto e a una riflessione impietosa sul nostro essere, oggi, uomini sulla terra. Ma la forza espressiva di quest’opera assume, innanzitutto, significati che ci legano alla terra-madre, che viene in questo modo sacralizzata. Così, traspaiono i valori messianici che le geometrie dei tracciati riescono a valorizzare. Come tutte le forme simboliche, anche questa parla di una missione: quella di andare oltre il finito e farci percepire, pur nella fragilità del nostro territorio di memoria, l’eco lontana di una meravigliosa eredità secolare.