La bambola Camilla e l’orsetto pilota
Antonia Arslan
In casa mia c’è un grande cassetto che praticamente non apro mai. È l’ultimo di un mobile della stanza degli ospiti, e se mi capita di pensarci, mi annoia anche solo l’idea di provare ad aprirlo. È troppo pieno di roba vecchia, l’apertura scorre a fatica, non c’è dentro niente – così credo – di interessante. Eppure può succedere di doverlo fare: quando non si trova più qualcosa, si guarda in ogni stanza disperatamente e alla fine, in preda alla confusione più totale, si fruga negli angoli remoti e nei cassetti dimenticati.
In un giorno caldo dello scorso agosto, mentre cercavo la chiave della soffitta, vecchia e grandissima, impossibile da perdere (ma purtroppo anche ben difficile da rifare in caso di smarrimento) mi venne in mente quel particolare ricettacolo di “veciade”, come avrebbe detto la mia sportivissima mamma Vittoria, che buttava via senza indugio tutto quello che non serviva più, con grande agitazione di zia Henriette, la quale invece metteva da parte anche gli “spaghi troppo corti per essere usati”.
E così entrai nella stanza chiusa da mesi, soffocante, accesi la luce e mi applicai a tirare con forza il quarto cassetto del grande comò. Non c’era, ovviamente, la famosa chiave (che poi ritrovai misteriosamente al suo posto nel cestino dell’ingresso...); ma sotto due stampe malandate e carta velina sgualcita mi apparve la Bambola Dimenticata, la creatura di celluloide colla vestina corta di satin rosa – e fiori di panno lenci applicati sopra – che era la mia delizia dei cinque anni. Capelli corti dal taglio sbarazzino, braccine nude e gambette ciondoloni, con gli elastici ahimè ormai allentati, le scarpette basse disegnate in nero, era proprio lei, la bionda Camilla. L’amica a cui raccontavo i segreti e che non li rivelava a nessuno, quella che non aveva gente che le dava ordini (perché tanto non ascoltava neanche i miei), che aveva i capelli color platino (come io non li avrei mai avuti) e un vestitino rosa coi fiori di panno, una vera sciccheria che io non potevo neppure sognare, decisa com’era mamma Vittoria a vestirci tutti e tre uguali, in pantaloncini e camicia colorata. La bambola Camilla era il mio sfogo nascosto, la mia confidente muta, la prima vera amica: ma mi ero totalmente dimenticata di lei, e di quei giorni dell’ultimo anno di guerra, quando veniva a farmi scuola a casa una giovane maestra biondissima e disinvolta che le assomigliava...
Camilla è la sorella del mio amico taciturno di oggi, l’orsetto pilota col berretto e la giacchettina blu da capitano, braghette anche blu e cravattino, che mi sono comprata in un negozietto di stazione e al quale confido le sciocche paure che mi vengono in mente da qualche tempo (e non c’è più la spavalda mamma Vittoria a prendermi in giro, così mi immagino che lo faccia lui: e raddrizzo le spalle). Paure sciocche che lasciamo attecchire in noi con superficialità, credendoci forti, immuni, padroni del nostro destino; e che invece ci lavorano dentro, fanno appassire il cuore e la mente in un groviglio di emozioni negative – rendendoci creduli e meschini.
L’orsetto pilota porta con orgoglio il distintivo di un’improbabile compagnia aerea, e il suo silenzioso guardarmi mi ricorda virtù ormai dimenticate: la prudenza e la pazienza che aprono la strada alla luminosa saggezza.