L’alba e la liturgia del tempo
Suona la sveglia, subito spenta, e sono già in piedi, mi vesto veloce. È ancora notte. Padre Maurizio celebra Messa alle 5.45 prima di tornare in città. Non c’è modo più prezioso per offrirci il suo affetto, la sua benedizione. Tutto è immobile silenzio, le candele sull’altare riverberano dalle finestre una luce tremula, come un bagliore di stelle lontane. Il sacerdote, nell’ordine di Melchisedek, officia fronte all’Eterno. Una vertigine di spazio e tempo. Non siamo qui per caso, non siamo scimmie glabre e tecnologiche. Siamo parte, agenti e custodi, di un mistero che ci sovrasta, ci vivifica. Un mistero che potrebbe annichilirci.
Forse padre Maurizio pensava che sarebbe stato solo quando ieri ci ha avvisato di questa insolita ora per la celebrazione. Sorrido mentre salgo verso la chiesa ricordando il chierichetto che fui – servir Messa la mattina è stata la prima scansione adulta delle mie giornate di bimbo, ne ero felice e orgoglioso –. L’orologio di casa è approssimativo e normalmente faccio riferimento al tocco delle campane, ma fino all’Ave Maria mattutina, ore 7.00, il campanile tace. La Santa Messa è già cominciata e mi picchierei in testa, mi sono perso Bonum est confidere e il Kyrie. Chi non conosce la grazia della liturgia: voce, canto, gesto, cadenza, non immagina, non può sperimentare la bellezza, la potenza della sostanza che si fa forma. La liturgia è actio divina.
Il culto è l’origine della cultura, la ritualità nel praticarlo certifica l’appartenenza a una tradizione. Il cristianesimo (e la cristianità finché è esistita come dimensione sociale, ora è morta seppur insepolta) è determinato dall’Incarnazione – vita, passione/morte, resurrezione –, vive nei sacramenti, di sacramenti. Ben altro che una ideologia per buone e brave persone bastanti a sé.
Non sono solo: Giovanna e Alice, giovani donne, mogli e madri (di due adolescenti l’una e di due bimbi l’altra) mi hanno preceduto. All’uscita ci fermiamo sul piazzale, tre sigarette accese e gli occhi vagano sul paese addormentato, i crinali, le cime, il cielo che s’appresta all’aurora. Come è bello! Molto più di quanto si possa dire, ne siamo ben coscienti e le parole, quando sgorgano, sono per le difficoltà quotidiane, il lavoro sempre più precario e labile, i figli che crescono, i vecchi comunque bisognosi. Possiamo ringraziare per tutto ciò che abbiamo, è moltissimo. Di gioia e di dolore, e non equilibrati, sono i giorni dell’uomo.
Siamo nell’Avvento, il tempo che precede e prepara il Santo Natale, attimo eterno che tutto contempla, sigillato nella carne dell’uomo. Lo sa la Madre per aver detto «sia fatta la Tua volontà», lo sa lo sposo e padre putativo che lo accetta, lo sa il Precursore sfiorato nel grembo materno. Lo scoprono i Magi scrutando i cieli, emblema di un’arcaica sapienza di cui nulla resta ma che ha illuminato le tenebre del tempo antecedente. Anche noi viviamo nelle tenebre ma abbiamo illuminato la notte, brandiamo la tecnologia, serviamo la finanza, caracolliamo sul baratro di una pretesa onnipotenza che ci inghiottirà. Non sciupare il proprio tempo, per quello che è. Rendere lode, vivendo, al mistero che ci avvolge. È il mio buon augurio. Buon Santo Natale MMXVIII A.D.