Il mistero di Matteo
Di Caravaggio noi ammiriamo lo stile già “cinematografico”, fondato sul contrasto della luce e dell’ombra. Quando la luce divora l’ombra emergono l’inquietante evidenza, il fatale splendore e, dunque, la terribile moralità del Vero visibile. È qui, nel mondo degli uomini abitato dall’ombra e svelato dalla luce, che Caravaggio racconta la storia, attualizzandola, rendendola moderna. Si prenda la celebre Chiamata di Matteo.
I Vangeli sinottici – Matteo (9,9), Marco (2,15-17) e Luca (5,29-32) – sono espliciti. La sceneggiatura è, come sempre, fulminea. Matteo è un pubblicano, uno che riscuote le tasse per conto dei Romani: un rinnegato collaborazionista. Il suo status è quello dell’infamia. Sta all’ultimo posto nella scala sociale e nella considerazione etica di un giudeo del primo secolo della nostra era. Gesù vede questa specie di intoccabile e gli chiede di seguirlo. Immediata è la risposta del chiamato. Lascia tutto e segue il Maestro. Quando il trentenne Caravaggio, fra il luglio del 1599 e il luglio del 1600, dipinse in San Luigi dei Francesi per il prelato Mathieu Cointrel (italianizzato in Contarelli) i teleri dedicati al santo protettore del committente, non ebbe dubbi. Il testo evangelico per essere efficace e da tutti comprensibile doveva subire una traduzione analogica. O il Vangelo è attuale, è in grado di parlare all’uomo di oggi, vestendosi dei panni di oggi, oppure non è. Questo pensava il cattolico Caravaggio, così insegnavano i decreti sulle arti promulgati dal Concilio di Trento. Analogia vuol dire trasmissione dell’essenza di un messaggio antico attraverso l’adeguamento in forme moderne di persone e situazioni. Il Matteo del Vangelo è un personaggio spregevole, ma chi potrebbe essere, nella Roma del 1600, un tipo umano altrettanto spregevole, un personaggio “moderno” che svolge azioni altrettanto deprecabili e che perciò può essere paragonato per analogia all’evangelista prima della conversione? La risposta di Caravaggio a questa domanda è geniale.
Il Matteo del 1600 è l’usuraio, uno che ha fatto i soldi prestando denari a strozzo e trafficando con la malavita. Ed ecco la scena celebre, vero e proprio colpo di mano sulla Roma contemporanea, ambientata in un luogo concettualmente analogo al banco del gabelliere giudeo nella Gerusalemme di Ponzio Pilato. È una stamberga della Roma popolare, da pensare in qualche vicolo fra piazza del Pantheon e Campo de’ Fiori. In questo luogo, che è facile immaginare sporco e maleodorante, giovani con le armi bene in vista – una tipologia umana in bilico fra il bravo manzoniano, lo sfruttatore di donne e il baro – stanno intorno a un tavolo dove si parla di denaro e si contano monete. Chi è Matteo, il pubblicano qui in figura dell’usuraio malavitoso dell’anno 1600? È l’uomo d’età, ben vestito che sta al centro del tavolo e che, incuriosito e turbato, si porta la mano destra al petto come se stesse per dire a Cristo che sta entrando: «Me?». Oppure è il giovane torvo, tutto concentrato sulle monete che sta contando, nell’angolo di sinistra? Gli studiosi ancora si dividono.
Questo aspetto però è meno importante. Ciò che andava messo in figura in forma analogica è il fulmineo effetto della chiamata. I Vangeli non dicono che Cristo persuase Matteo a seguirlo. Non gli fece nessun discorso. Lo chiamò e lui abbandonò tutto e, semplicemente e immediatamente, lo seguì. La chiamata non ha preludi, non ammette svolgimenti dialettici, non prevede effetti retorici. La chiamata, quando arriva, colpisce al cuore ed è per sempre. Caravaggio rappresentò tutto questo giocando su effetti pittorici brutalmente naturalistici. Cristo entra dalla porta della stamberga romana che si è aperta per lasciarlo passare. Entra nella luce sporca, gialla, del vicolo. Quella fascia di luce polverosa è metafora della luce divina che ha toccato il cuore del chiamato. Cristo arriva accompagnato da Pietro. In un primo momento, come hanno dimostrato le risultanze radiografiche, Cristo era solo. Poi, forse per suggerimento del committente o forse anche per autopersuasione del pittore stesso, convinto da buon cattolico che non ci può essere chiamata alla salvezza senza la mediazione della Chiesa, è stata aggiunta la figura di Pietro. Da notare che la mano di Cristo è una copia della mano di Adamo che, nella volta della Sistina, accoglie la scintilla creatrice.
Solo con un altro Michelangelo, il Buonarroti da Firenze, il Michelangelo da Caravaggio voleva confrontarsi. Solo lui cita nelle sue opere. Lo dimostra qui, lo dimostra nella Crocifissione di San Pietro della Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, copiata dalla Cappella Paolina, dove Pietro in croce volge lo sguardo turbato e quasi irato verso gli astanti, quasi a dubitare dell’utilità del suo martirio. Lo dimostra nella Deposizione ai Musei Vaticani, dove il corpo di Cristo è un omaggio alla Pietà di San Pietro. Si può giocare di naturalistica analogia nell’attualizzazione del Vangelo e allo stesso tempo evocare l’assoluta sacralità, facendo emergere il gesto iconico che un grande modello artistico ci ha consegnato. Così ragionò Caravaggio.
di Antonio Paolucci