Il miracolo vulcanico di Tenerife
di Mario Botta
La sorprendente chiesa del Santo Redentore, costruita dall’architetto Fernando Menis (Santa Cruz de Tenerife, 1951) a San Cristóbal de La Laguna, sull’isola di Tenerife, in Spagna, può essere considerata un azzardo urbanistico poiché la sua realizzazione ha richiesto un ridisegno dell’orografia esistente in modo da relazionare la parte alta della città con la parte bassa, dove sorge la chiesa. La condizione geografica, infatti, lungo il fronte ovest del terreno, vede il livello della strada in una posizione sopraelevata, in modo che diventi un affaccio sul tetto della chiesa realizzata in quattro “moduli” di calcestruzzo. La ricucitura fra i differenti livelli del lotto è stata realizzata in modo significativo con terrazzamenti a verde e rampe di camminamento su due lati del perimetro: un’organizzazione distributiva che dev’essere considerata parte integrante del felice disegno architettonico. Nell’attuale condizione urbanistica, sempre più i luoghi di culto devono far fronte a situazioni logistiche formate da spazi residui, spesso nelle posizioni meno significative rispetto alle gerarchie dei luoghi idonei per la vita cittadina.
Molto spesso le “acrobazie” compositive rimproverate dalla critica agli architetti sono dovute allo stravolgimento e alla povertà delle condizioni urbane riservate alle edificazioni, che non garantiscono i requisiti spaziali per un corretto uso.
Ho ritenuto utile segnalare questo progetto a Tenerife proprio perché ha saputo scardinare le normali tipologie ecclesiali e risolvere, con sapere costruttivo, le difficili contraddizioni presentate dagli spazi cittadini. Con queste premesse, le scelte progettuali, ovviamente, risuonano come radicali, sia per l’organizzazione funzionale, sia per il linguaggio formale.
I “moduli” edilizi in calcestruzzo armato si configurano come quattro volumi irregolari accostati lateralmente per formare delle “fenditure” di luce naturale che agiscono come articolazioni fra le diverse parti. Dei quattro volumi che compongono il complesso, i primi due sul fronte ovest d’ingresso sono destinati alla parrocchia organizzata su tre livelli sovrapposti, mentre i due volumi restanti sul fronte est ospitano, a tutta altezza, l’aula assembleare e la zona presbiteriale, quest’ultima caratterizzata da una croce di luce ritagliata nello spessore della parete di fondo.
La qualità degli spazi interni si riflette in ambienti di grande suggestione, conquistata grazie all’essenzialità dei materiali (il calcestruzzo è arricchito con lapilli vulcanici che migliorano l’assorbimento acustico), dove le “fenditure” di luce naturale – zenitale e laterale – sottolineano il contrasto fra spazio interno e realtà esterna. La nudità degli ambienti interni si confronta con pochi ed essenziali arredi liturgici: un fondale teatrale teso a evidenziare la celebrazione dei riti.
La povertà e il rigore compositivo, misti al “massimalismo” espressivo del beton-brut di lecourbusieriana memoria, hanno evitato il rischio di orpelli postmoderni o di citazioni manieristiche. Lo spazio sacro dell’interno assume sfumature e suggestioni molto particolari, da apprezzare al di là delle prevedibili nostalgie a ricordo del grande passato.