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Il gusto vero di una pizza a New York

​C’è una parola italiana più universalmente conosciuta di “piz­za”? Onestamente direi di no. La realtà concreta e colorata di questa nostra meravigliosa invenzione ha conquistato tutti i continenti, declassando le parole della musica che fino a ieri erano le più conosciute, come “basso”, “contralto”, o “tenore” per classificare le voci, o i nomi dei movimenti musicali nelle partiture: perché il cibo è fondamentale...
Pizze oggigiorno ce ne sono in tutto il mondo, condite con i più inverosimili ingredienti, e tutti ne mangiano; e possono essere rotonde (come piccole lune piene o vaste come un tavolo per sei persone) o quadrate, rettangolari (e lunghe anche un metro) o tagliate a piccoli pezzi e servite per strada; perfino - in eccelsi ristoranti dotati di parecchie stelle - chiamate “pjzze” per nobilitarne l’origine un po’ volgare. Ma naturalmente c’è pizza e pizza. Personalmente, non la mangio se non c’entra un napoletano; nativo o importato, non importa, purché sappia comportarsi bene nella faccenda scabrosa (e ignota ai più) delle ore di lievitazione necessarie. E così abitualmente ci rinuncio nella mia città, e in genere nel Nord sono molto diffidente.
Eppure ci sono meritorie associazioni di pizzaioli che divulgano il verbo napoletano in tutto il mondo, con severa cura degli ingredienti e del tempo canonico della preparazione. Con tonanti scomuniche a chi infrange il verbo dell’ortodossia. Ed esistono – ahimè soprattutto all’estero – molte pizzerie che si sono adeguate, ed esibiscono con orgoglio stemmi e certificati che attestano la loro rigorosa adesione alle norme previste. Di solito vengono premiate dall’entusiasmo popolare: sicché da Minneapolis a Mykonos, dal Canada alla Thailandia, la carta geografica appesa all’ingresso di ogni locale è ormai costellata di promettenti segnali di delizie.
Negli Stati Uniti, ci sono pizze dappertutto. Molte sono abominevoli, condite con “cose” raccapriccianti; ma si trovano anche luoghi amabili e caldi, dove tutto accoglie e conforta, a partire dagli invitanti profumi che ti avvolgono all’entrata. Ed è a New York, in una buia sera di novembre nella zona di Wall Street, che ho avuto la gioia di un’esperienza luminosa e rasserenante, che al gusto di una pizza molto speciale unì il senso di solida, amichevole simpatia che irradiava intorno a sé il proprietario, Roberto. Ci andai insieme a una coppia a cui già mi univa una bella amicizia. Roberto trattò tutti come persone care.
E così ci offrì con garbo cibi del cuore, e le pizze erano calde di forno e squisite; ma soprattutto parlammo. Ci raccontò come era arrivato in America squattrinato, senza sapere una parola di inglese; come aveva accettato lavori diversi senza sofisticare; come aveva aperto un locale in una cittadina, sempre tenendo davanti a sé la sua stella, il sogno di un ristorante suo, dove offrire una pizza come si deve «e come Dio comanda», ripetè più volte. Poi disse: «Ai dolci ci pensa mia sorella». E infatti poco dopo arrivò lei, Graziella, con un sorriso irresistibile e irresistibili assaggi di svariate meraviglie. Ci mettemmo allora tranquilli a contarcela, seduti tutti insieme: e regnava quella rara, mirabile armonia del colloquio, quando intorno alla tavola, sotto la quieta luce di una lampada, si divide il cibo, che diventa sacro.