Il dono prezioso di Meck
di Mario Botta
La chiesa del Beato Padre Rupert Mayer (2018), a Poing, Monaco di Baviera, è purtroppo l’ultima opera realizzata dall’architetto tedesco Andreas Meck, prematuramente scomparso nell’agosto scorso. Una chiesa da considerare come un dono per l’architettura moderna.
L’essenzialità dell’impianto e la chiarezza del linguaggio presenti in questa opera di grande forza espressiva valgono forse più dei trattati e delle normative che accompagnano le richieste di spazi e funzioni che vengono fatte ai progettisti: gli esempi insegnano a coloro che li sanno interpretare. Questa chiesa di dimensioni modeste può risultare magistrale se letta come naturale sbocco della modernità, un percorso trasversale agli stili che hanno accompagnato nei secoli le differenti culture.
Il tema dell’equilibrio fra lo spazio liturgico, necessariamente chiamato a seguire le trasformazioni sociali, nel confronto-scontro con la qualità dello spazio architettonico dell’edificio, è stato il problema e nel contempo l’enigma centrale di fronte al quale si sono chinati molti architetti. Dai primi esempi paleocristiani fino alle disposizioni del Concilio Vaticano II, la dualità fra lo spazio architettonico del tempio (luogo simbolico di culto per la polis) e quello invece auspicato per favorire una liturgia sempre più partecipata, è una sfida che ha accompagnato i linguaggi espressivi – gli stili – lungo lo scorrere della storia.
La cultura moderna, soprattutto in Germania, in primis con il pensiero di Guardini e Schwarz, ha fatto certamente la sua parte, favorita anche dalla semplificazione del linguaggio razionale adottato. Ma ora, se osserviamo le molte chiese costruite nei decenni scorsi, emergono, forse ancor più che nel passato, incertezze e disinvolte approssimazioni nelle quali di volta in volta prevale la qualità dello spazio architettonico o, viceversa, l’organizzazione della funzione liturgica. In questi esempi l’espressione del linguaggio architettonico e l’ordine liturgico sono in realtà affrontati separatamente. Perfino negli esempi eccelsi, dove la qualità del linguaggio adottato è indiscussa – basti pensare ad Aalto, Michelucci, Le Corbusier, Utzon o Böhm – la soluzione liturgica si configura spesso come servizio deviato da una forma di subordinazione al Diktat dell’architettura: le due componenti non riescono a interagire fra di loro e ad arricchirsi reciprocamente.
Al contrario, nella semplicità di questa chiesa di Andreas Meck (una pianta quadrata con la geniale invenzione di una spazialità interna generata dalle sezioni verticali che si trasformano in riflettori della luce zenitale) lo spazio unitario a livello del suolo si trasforma in volume all’interno. Le immagini spaziali per settori distinti connotano gli spazi che convergono verso l’altare. Questa invenzione compositiva, dentro un unico volume, offre chiarezza e sintesi distributiva e concorre a modellare un’unità straordinariamente ricca per la chiesa. Si configura come un bell’esempio scritto con un linguaggio contemporaneo, che conferma la possibilità di una sintesi fra le esigenze liturgiche e quelle dell’architettura che non possono e non devono essere considerate separatamente.