Il cuore parla al cuore
di Antonia Arslan
Camilla è stata la mia amica del cuore in quarta e quinta elementare: e devo confessare che dopo di lei non ho più amato con tanto irriflessivo trasporto, con tanta ingenua ma decisa effusione. Fu amore a prima vista. La vidi per la prima volta quando entrò nella nostra classe di quarta, uno dei primi giorni di scuola. Lei ripeteva l’anno, io ero avanti di uno, quindi di età eravamo abbastanza distanti: già pochi mesi a quell’età fanno una bella differenza.
Era una biondina timida e robusta, con una faccetta quadrata che sorrideva poco, e io mi sentii come trasportata da un’onda: dovevo assolutamente diventarle amica. Quegli occhi spaesati mi fecero subito pensare che potevo essere proprio io a spiegarle la classe e le altre compagne, a presentarle per bene la maestra suor Lucia, che parlava a voce bassa e ci lasciava chiacchierare perché era ammalata, bastava non alzare la voce; e lei forse mi avrebbe raccontato un po’ di quelle cose da grandi che Rosetta e Tosca si dicevano sempre, ma chiudevano la bocca se io mi avvicinavo. Avevano perso ben due anni di scuola durante la guerra, avevano lavorato coi contrabbandieri in un quartiere popolare della mia città, e avevano già undici anni, una certa esperienza e un ragazzo per cui litigavano... Ma Camilla era ancora più bambina di me.
Con mia grande gioia, qualche giorno dopo saltò fuori che mia madre e sua nonna si conoscevano, perché suo zio era un pilota d’aereo, collega del fratello di mamma, zio Ildebrando, ed era morto in azione durante la guerra. «Una famiglia sfortunata – disse la mamma –, anche il papà di Camilla forse è morto, è uno dei soldati italiani dispersi in Russia, e non si sa più niente di lui. Sua madre, la bella Ileana, piange tutto il giorno e la nonna ha portato Camilla a studiare qui perché si metta tranquilla e sorrida un po’. L’abbiamo messa apposta in classe con te».
La mia felicità non ebbe confini. Camilla diventò amica del cuore, confidente, partecipe di ogni cosa. Andavamo nel giardino oscuro e abbandonato del nonno e ci sedevamo sotto una splendida pergola di rose gialle, inventavamo storie e Camilla si confidava. Un giorno mi disse: «Tu sei andata al matrimonio dei tuoi genitori? Io sì, è stato bellissimo, io avevo un abito ricamato con tante rose e tenevo lo strascico del vestito bianco di mamma Ileana, insieme con mio fratello Gianni vestito da paggetto». La cosa mi colpì molto, io non avevo nessun ricordo del genere, mi avevano vestita da damigella solo al matrimonio di zia Luisa.
Andammo a vedere La primula rossa, e poi leggemmo insieme il libro sotto la pergola di rose. Raccoglievamo foglie e fiori per seccarli e incollarli in un album segretissimo, zeppo di frasi sentimentali che io copiavo da “Grand Hotel”, la rivista proibita che avevo scoperto sotto il letto della tata Zaira. Ma Camilla pensava a suo padre, disperso chissà dove nelle steppe di Russia, e alla forza del suo abbraccio. Le pareva che lui la chiamasse, che la sua voce arrivasse come un vento sottile e le mettesse in confusione i pensieri. «Per quello ogni tanto sembro stupida – mi disse rassegnata –, ma io spero sempre che mi dica dov’è, che sta arrivando. Mia nonna e mia mamma non ci credono più, non posso abbandonarlo anch’io». E io capii che proprio non potevo consolarla.