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Il cameriere Demetrio e la passione del buon vino

​Scrigno di voluttà culinarie fu per me e Paolo appena sposati la presenza di uno strano angelo custode, Demetrio il Cameriere, un signore gentilissimo, ma dal carattere deciso e dalla voce tonante. E anche la nostra strada, la via Altinate dal nome raro ed elegante, abitata da tanti veneti di città, “ciacoloni” ma portati più al sussurro piccante che all’esprimersi a gola spiegata, dalla sua presenza fu subito stregata. E non solo dalla presenza e dal­l’abbigliamento inappuntabile (oltre che dal comportamento degno di un maggiordomo inglese), ma dalle ondate di aromi stuzzicanti che si spandevano dalla finestra sempre aperta della nostra cucina per la stretta via tutta portici e curve, arrivando fino all’antichissima chiesa di Santa Sofia. Demetrio era un giovanotto di campagna che sognava di fare il cameriere e di vivere in città, presso una famiglia importante. Si era sfinito di lavoro cominciando come garzone nell’osteria del suo paesino; in seguito approdò in una trattoria casalinga, e poi in un vero ristorante. Finalmente arrivò a Padova, assunto da una nobile famiglia ricca di titoli ma scarsa di finanze. Là gli insegnarono le belle maniere (con molte sfumature eleganti e un po’ antiquate), ma non si curarono molto di pagarlo decentemente. Lui però era felice, faceva il tuttofare ma si sentiva “Cameriere de Casada”, e in quell’ambiente si trovava perfettamente a suo agio.
Purtroppo si abituò a qualche bicchere di troppo. La famiglia sopravviveva, con qualche fatica, grazie alla produzione di un ottimo vino rosso, che a lui piacque molto; ma un bicchierino tira l’altro, e poi un altro ancora, e così un bel momento il conte padre si accorse che le bottiglie in cantina calavano vertiginosamente, e il buon Demetrio fu subito sospettato, e poi cacciato, con sua grande vergogna. E fu così che - grazie a un’amica che lo conosceva - capitò da noi, giovani genitori sprovveduti e impreparati. Si mise in cucina tutto allegro, e le nostre pastasciutte miserelle si arricchirono prodigiosamente con le verdure appetitose che scovava “nelle piazze” - delle Erbe o dei Frutti, a seconda di dove lo portava il suo naso -, cucinava con misteriosi ingredienti e poi mescolava alla pasta, ricavandone gusti meravigliosamente nuovi per i nostri palati.
Scoprimmo con lui che le melanzane non erano quella triste cosa viola, oblunga, dal sapore incerto, che le nostre madri ci ammannivano ogni tanto con la scusa che erano amare ma “facevano tanto bene”; che gli zucchini non erano un’altra verduretta penitenziale, ma piccoli scrigni di sapori conturbanti; e che i carciofi non si mangiavano solo lessi (e insulsi), ma potevano essere gustosissimi...
In una bellissima, dolce sera di giugno invitammo alcuni amici a cenare insieme sulla terrazza, vicino al glicine in fiore. Arrivarono con alcune bottiglie del robusto vino rosso della vigna del conte, quello dove aveva lavorato il nostro Demetrio, e il cibo fu un successo, compreso il grande vassoio delle patatine che lui sapeva friggere con arte sopraffina. Purtroppo quel vino gli piaceva davvero troppo, e - partiti gli ospiti - lo trovammo disteso per terra in un angolo della cucina, in preda a una sbornia triste. Lo lasciammo lì, e se ne andò da solo durante la notte.
Ma dopo qualche giorno ci arrivò un elegante biglietto d’addio.