Il breve addio a una vita intera
di Antonia Arslan
Mi aggiro per le grandi stanze abbandonate, e lo cerco dappertutto. Negli angoli dove accumulava i suoi tappeti lo spazio è vuoto, ormai impolverato. Sulla grande scrivania di cristallo l’agenda che gli regalai a Natale, con la copertina di pelle decorata da antichi caratteri armeni, è ferma al 9 gennaio: dal giorno dopo non riuscì più ad alzarsi e ad attraversare la vecchia casa. L’amato giaccone pelliccioso è appeso in ingresso, con le tasche ancora piene di caramelle solidificate e di fazzoletti di carta appallottolati.
Paolo, il mio amico del cuore, se n’è andato dall’altra parte il 2 di febbraio, e io mi sono molto arrabbiata con lui perché è stato così pigro da non raggiungere il suo compleanno, due settimane dopo. Si è abbandonato alla suadente, nuova e misteriosa amica che lo chiamava, lo chiamava incessantemente, e urgeva sulla sua stanchezza: e lo ha fatto con grazia, decoro e cortesia. Ma prima ha voluto vedere gli amici e le amiche, le persone che amava, ha parlato con ognuno, a ognuno ha donato.
Dal suo sguardo avevo capito che stava succedendo qualcosa. Non mi puntava più direttamente gli occhi negli occhi, si perdeva spesso nel vuoto. Ma era un vuoto strano. Sembrava pensare ad altro; ma poi mi accorsi che gli passavano davanti, come nuvole lente, bizzarri richiami: e che giorno dopo giorno il nostro consueto chiacchierare, le discussioni su letture e riflessioni, su libri e giornali, su persone cose paesaggi umori della città, si appannavano e perdevano significato.
Parlava poco dei suoi malesseri, ma camminava con fatica sempre più evidente. Faticava a raggiungere il suo studio, curvando esageratamente la sua alta statura e oscillando un poco. Scioglieva le mani strette sulla schiena e si appoggiava leggermente su una sedia e poi su un’altra, come seguendo il filo segreto di una vitalità che gli sfuggiva, un poco alla volta – lui consenziente. Aveva accettato la malattia e se la faceva compagna; aveva accettato la fine e la sapeva imminente. Ormai pensava le cose di Dio.
E io non capivo, non sentivo la corsa del tempo. Su tante cose e su tanti nostri discorsi e sorrisi e bisticci era già calato il sipario: l’ultima frase era già stata detta, ma io probabilmente l’avevo dimenticata; l’ultima torta e l’ultimo biscottino erano stati preparati, ma io non mi ero accorta di doverli gustare con spasmodica attenzione. Così mi convinsi che avremmo passato il Natale e le feste in pace e gioia, come sempre, immersi nell’atmosfera profumata dei suoi dolci, tra aromi di cioccolata e vaniglia, aspettando la meravigliosa cassata siciliana e le speciali, saporite lenticchie che preparava per Capodanno con lenta allegria.
Invece furono giorni tristi. Era come una nuvola pesante, un temporale che non scoppiava. Si aggirava sopra la casa, ammorbava i nostri pensieri, stancava la mente e il cuore: io mi sfinivo a sfogliare libri, a vagare qua e là sentendola ostile. Lui era sempre più silenzioso e ci parlavamo poco, l’indispensabile. Voleva, lo capii tardi, che lo lasciassi andare.
Non ci fu la cassata, con la pasta di mandorle verde e la scritta augurale; ci furono infermieri e medicine, e il suo viso sempre più affilato. Finché in un’alba scura e polverosa gli tenni la mano sul cuore e gli dissi: «A presto, amico della mia vita»».