Il Risorto agreste di Piero
Non doveva essere niente altro che lo stemma della città l’affresco dipinto nel 1458 da Piero della Francesca nella parete di fronte all’ingresso del Palazzo Comunale di Borgo Sansepolcro. Oggi, inserito all’interno di quello che è diventato il Museo Civico, l’affresco è ammirato da studiosi e da turisti provenienti da tutto il mondo come uno dei capolavori più grandi del Rinascimento pittorico italiano. Il nome della piccola città toscana è riferito al sepolcro di Cristo perché (questo racconta il mito fondativo) furono due pellegrini, Egidio e Arcano, a portare dalla Terrasanta le reliquie sulle quali il centro prese forma. Piero della Francesca, che era cittadino eminente di Sansepolcro dove aveva casa e bottega e dove ricopriva anche il ruolo di consigliere comunale, volle dare il meglio di sé nel dipinto destinato a rappresentare la sua comunità. Se il soggetto da rappresentare era lo stemma della città, se lo schema compositivo doveva obbedire a un prototipo antico, tanto valeva allora – avrà pensato Piero – caricare quella iconografia stereotipa di tutti i significati religiosi che l’evento evangelico suggerisce.
Il risultato è la Resurrezione più straordinaria della storia dell’arte italiana. Il prodigio è ambientato nelle prime luci di un’alba primaverile quando il cielo trascolora dal grigio all’azzurro perla e le nubi si tingono di rosa, dello stesso rosa glorioso di cui splende il manto del Salvatore così che la sua ascesa dal sepolcro è metafora del sole nascente. Cristo è vincitore delle tenebre ed è “renovatio mundi”. Per questo la natura cambia aspetto e gli alberi, a sinistra ancora spogli e come rappresi nel gelo invernale, verdeggiano di foglie sulla destra. La Resurrezione significa l’inizio di una nuova era nella storia dell’umanità e di una nuova vita per ogni credente. A questo concetto teologico allude il paesaggio che si apre alla luce del sole rinnovandosi dalle sembianze dell’inverno a quelle di una eterna primavera. Analogamente, il sarcofago a forma di altare dal quale sale, come nella elevazione eucaristica, la gloria del Cristo vivente, allude al sacrificio della Messa nel quale si rinnova ogni giorno il mistero della Morte e Resurrezione.
Anche se l’immagine del risorto consegnataci da Piero è perfettamente ortodossa e può essere supportata da impeccabili riferimenti scritturali e liturgici, si può capire perché la critica moderna abbia voluto interpretarla come espressione di una religiosità senza tempo, rurale e precristiana, legata al ciclo delle stagioni e al mistero della vita che continuamente si rinnova. E valga per tutte la lettura che, nel 1927, Roberto Longhi diede del Cristo «orrendamente silvano e quasi bovino fermo sulla proda del sepolcro a contemplare i suoi poderi di questo mondo». Il paesaggio sullo sfondo, arido e luminoso, striato di magri coltivi, punteggiato di nere querce, è quello tipico dell’alta Val Tiberina, patria di Piero della Francesca. Contro quello scenario domestico si staglia l’incombere sacrale, la terribile suggestione iconica del risorto. A lui affida la vita il pittore, se è il suo autoritratto (come vorrebbe un’antica e tutto sommato plausibile tradizione) il volto dell’armigero dormiente con la testa appoggiata alla sponda del sepolcro in atto di fiducioso abbandono.
di Antonio Paolucci