Il Dio morto che interrogò Dostoevskij
Di solito nell’iconografia cristiana la Passione e morte di Cristo è raccontata come una “sinfonia”, come partecipazione commossa di molti all’immane tragedia, al dolore di tutti e di ognuno. Sia quando i giudei pietosi Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea schiodano il corpo esanime dalla croce e lo sostengono con le braccia (così Michelangelo nella Pietà di Santa Maria del Fiore, così il Rosso Fiorentino nella Deposizione di Volterra) sia quando la Madre, Maria Maddalena e i discepoli lo piangono e gridano tutta la loro disperazione prima della sepoltura. E basti ricordare il compianto di Niccolò dell’Arca in Santa Maria della Vita a Bologna o la Deposizione di Caravaggio nella Pinacoteca Vaticana. C’è una eccezione tuttavia, una eccezione che si colloca ai livelli più alti nella storia universale dell’arte. Mi riferisco al Cristo nel sepolcro di Hans Holbein il Giovane, un dipinto databile al 1521-22 e custodito a Basilea nella Öffentlichen Kunstsammlung, all’interno del Kunstmuseum.
Qui il Cristo è terribilmente, atrocemente solo. Non c’è nessuno a piangerlo, nessuno a testimoniare la vita dopo la morte. Si direbbe che non c’è alcuna speranza né promessa di resurrezione. Quel dipinto, che Fëdor Dostoevskij vide nelle sue peregrinazioni europee per non dimenticarlo mai più, attraversa la sua opera letteraria come una ossessione. È una costante nei pensieri del principe Lev Nikolaevic Myškin, il protagonista de L’idiota. Ecco come Dostoevskij descrive il dipinto in una delle pagine più note di quel romanzo. «Il viso è tumefatto dai colpi, gonfio, ricoperto di lividi terribili, sanguinanti, gli occhi sono spalancati, le pupille sono storte, il bianco degli occhi luccica di un riflesso vitreo, cadaverico. Se era quello il corpo che videro i suoi discepoli, soprattutto i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano seguito e assistito vicino alla croce, come potevano essi credere, guardando un cadavere ridotto così, che quel martire sarebbe risorto?». Dostoevskij continua parlando del suo sgomento di fronte alla terribile efficienza, anzi onnipotenza della morte: «Se la morte è così terribile e se sono così potenti le leggi della natura, come è possibile sconfiggerle? Contemplando quel quadro la natura appare come una belva enorme implacabile e cieca, come una macchina gigantesca che senza pensarci ha affrontato dilaniato e inghiottito, senza provare alcuna compassione, un essere sublime e inimitabile, lo stesso essere che da solo valeva più della natura e di tutte le sue leggi».
Quanto lontano il Dostoevskij che medita sul Deposto di Holbein, questo povero gladiatore sconfitto che la morte ha rotto e disarticolato (indimenticabile il nero cadaverico che sale dai piedi e dalle punte delle dita per occupare tutto il corpo!...), quanto lontano dal Cristo russo luminoso, paziente e misericordioso che in altre pagine de L’idiota, per bocca del principe Myškin, il grande reazionario Fëdor Dostoevskij considera l’unico baluardo possibile per fronteggiare il razionalismo, il liberalismo, l’ateismo, il socialismo, il cattolicesimo, i “demoni” della Modernità. «Bisogna che il nostro Cristo risplenda a difesa contro l’Occidente, un Cristo che noi abbiamo conservato e che loro non conoscono» afferma l’“idiota” Lev Nikolaevic Myškin e la frase può essere assunta a emblema del pensiero religioso e politico di Fëdor Dostoevskij.
di Antonio Paolucci