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I gemelli Gori, pittori della bellezza di ogni creatura

​“Chi ha fatto il mondo lo può cambiare”. Così dicevano i nostri padri. Così vivono questo proverbio i pittori Alessandro e Jacopo Gori, gemelli, nati nel 1991. Li sorregge la certezza che l’Eterno Presente può cambiare passo a ogni secolo per rendersi più manifesto agli uomini attraverso i segni dei tempi.
Perciò questi due enfant prodige hanno adottato l’iperrealismo, già entrato negli annali del Novecento: ma loro praticano questa disciplina con altra intenzione e con la potente semplicità dei bambini. Sono capaci di giocare con sottigliezza latina con questo linguaggio preso a prestito, così come giocano con le conchiglie spaiate del tempo per prosciugare l’immensità del mare e riversarlo in una buchetta scavata sulla spiaggia. Si lasciano attrarre dalla celebre visione di sant’Agostino incarnando la figura di quella ingenua creatura che s’immagina di contenere la Realtà Eterna della Trinità in un pertugio inventato dalla nostra misera logica umana. Anche loro si pongono dalla parte della santa follia che fa arretrare persino il santo dottore davanti alla vastità del Mistero. Tentano lo stesso di scavare con la loro pittura una buchetta per radicarci dentro le due pianticelle di olivo delle loro anime, mentre sul mondo diluvia. Desiderano svelare il mistero scritto nel volto dell’uomo con tutta l’allegria spirituale di cui sono portatori. Eppure, conoscono il patire e vengono da lontane e attuali tribolazioni, ma le superano attraverso la grazia, perché hanno nel cuore quel lieve bisbiglio dell’alba, memoria del primo giorno del mondo. Cielo alto disteso, limpida fragranza dell’infinito, come fosse un tamburo che piange nel suo battito solitario per la lontananza dagli uomini che non cercano più la pace santa.
Quella tela su cui dipingono è tirata davvero come un tamburo, perché deve ricevere i colpi di pennello che trasmettono luce e ombra a quei volti che s’imprimono nella coscienza. Non si mischiano con gli affari del mondo. Sorridono dei troppi affanni degli emancipati. Non è la pittura che conta o la nicchia o il mare bensì quell’obbedienza irrevocabile che entrambi professano nei confronti della loro vocazione. Li vedo ritti in piedi cavalcare un’onda immensa, gridando contenti in faccia all’abisso. Vivono lontano da tutti, nei deserti astrali della luna da dove traguardano la terra.  Ci osservano da lassù con un potente canocchiale e scattano fotografie. Poi con paziente maestria le scompongono in reticoli, come orticelli da coltivare, le irrigano di luce sorgiva e di tenere ombre mattinali. Nuovissimi amanuensi dell’era virtuale non vanno in blocco come le superbe macchine da cui siamo dominati. Ora vivono lassù, dove hanno piazzato i loro cavalletti da pittore per tracciare un velo di pietà e di commossa partecipazione alle tragedie che ci sconvolgono. Ma anche da lassù colgono esempi di grandezza tra le persone che vedono affaticarsi sotto il sole.
Dipingono con la stessa regale dignità il popolo e i sovrani. Basta vedere quell’antico volto di Seneca, in realtà un barbiere amico di Jacopo, e quel san Pietro dei nostri giorni, dipinto dal fratello Alessandro, preso dalla strada per Roma dove riecheggia quella voce misteriosa: Quo vadis? Si potrebbe aggiungere: dove vai se tralasci la vita vera? Il loro appello, rivolto a tutti noi, è impresso attraverso l’acuta osservazione lenticolare della realtà. Così cercano d’immettere la speranza nel cuore della gente che si rispecchia in queste opere come fossero persone reali. Aboliscono di proposito il soggettivismo e l’estro romantico dell’artista per essere più aderenti ai minimi dettagli e non tralasciare un briciolo di vita.
Hanno accettato la sfida della macchina fotografica: perciò le si ribellano e vogliono fare a mano quello che la fattucchiera compone e stampa a tutto vapore. Quello che conta in modo assoluto è per loro la resa fulminante della bellezza d’ogni creatura, così come Dio l’ha concepita, perché altrimenti “la Verità tra le menzogne stona”, come grida dai tetti un loro folle amico.