Gio Ponti e il cielo di Taranto
di Mario Botta
Il fermento liturgico che ha fatto seguito al Concilio Ecumenico Vaticano II probabilmente suggerì all’Istituto internazionale di arte liturgica di scegliere una personalità di prestigio per la progettazione della nuova concattedrale di Taranto. Infatti, dopo l’iniziale rinuncia di Pierluigi Nervi venne designato l’architetto Gio Ponti (Milano, 1891-1979), un nome anch’esso di grande rilievo professionale e culturale.
L’intervento progettuale doveva rispondere alle esigenze della Chiesa del XX secolo e, nel contempo, riqualificare una parte di città immersa in un processo di accelerato sviluppo urbanistico. L’area prescelta è un isolato posto sulla testata di via Dante. Lo studio preliminare del progetto viene presentato nel 1964 e la dedicazione avviene il 6 dicembre del 1970, un tempo relativamente ragionevole per un progetto di questa portata. Gio Ponti elabora un intervento architettonico monumentale con una grande vasca d’acqua antistante e una scalinata d’ingresso imponente, che conduce alla quota del primo piano dove si trova la navata della chiesa.
L’impianto planimetrico assiale definisce una nuova prospettiva centrale dell’isolato, che si separa dall’edilizia residenziale ai lati che aveva sostituito, con indici di edificabilità più importanti, le edificazioni di inizio secolo. La mediocrità degli standard edilizi di quel comparto deve aver sollecitato Gio Ponti a un’invenzione coraggiosa e inedita per l’immagine della chiesa, tutta giocata sulla trasparenza delle parti costruttive.
Là dove la tipologia ecclesiale a croce latina della tradizione indicherebbe la presenza del transetto, Ponti propone una “vela” di tralicci di cemento traforati, posta all’esterno dell’aula assembleare: una sorta di “ricamo urbano” che s’innalza sopra il profilo della città, un’immagine iconica, suggestiva anche per una visione a grande distanza.
L’invenzione per questa concattedrale risiede nell’idea di offrire una presenza architettonica “traforata” – un anomalo campanile –, con il cielo mediterraneo che diviene protagonista nella quotidianità urbana: ai grandi volumi edilizi dell’intorno, l’architetto contrappone il rincorrersi dei vuoti (esagoni allungati, diamanti) che disegnano una nuova immagine. Forse ci troviamo di fronte a una scenografia che si configura come realtà, la metafora di una presenza che trova la propria ragione funzionale nella sottostante aula assembleare. Il sistema costruttivo trilitico di assemblaggio degli elementi in calcestruzzo bianco offre ritmo e leggerezza fra le campiture con un ordine compositivo che contrasta l’immagine monolitica propria della città.
Risuona ora intrigante misurare la capacità di Ponti – che apprezzavamo per una grande qualità progettuale su scala domestica – in rapporto con la città. Un’opera, questa della concattedrale di Taranto, di vera land art urbana, dove la secolare tradizione architettonica riesce a rinnovarsi attraverso il linguaggio personale di un progettista che ha saputo interpretare al meglio i limiti e le contraddizioni dei nostri tempi, e declinarli in un linguaggio profondamente contemporaneo.