Filippo e Giacomo fratelli di parola
di Maria Gloria Riva
Giacomo e Filippo sono venerati insieme, ma non vissero insieme. Compaiono uno accanto all’altro nell’elenco degli apostoli nel Vangelo e nel Canone romano, così anche le loro reliquie furono deposte insieme nella chiesa dei Dodici Apostoli a Roma. Da qui la loro indissolubile unione.
Una possente opera raffigurante i due santi, realizzata dal Veronese intorno al 1560 e custodita nella National Gallery of Ireland di Dublino, pareva senza storia. Nel 2015, invece, uno studioso dimostrò che la tela era originariamente collocata a Lecce, nella cappella di Villa Fulgenzio Della Monica dedicata ai due apostoli. Il caso volle che proprio un leccese, Francesco D’Andria, con un gruppo di altri archeologi, scoprisse nel 2008 a Pamukkale, l’antica Hierapolis, il sepolcro dell’apostolo Filippo.
Nel dipinto, i due apostoli non appaiono coetanei, ma in realtà, secondo la tradizione, erano nati entrambi nel 5 d.C. Filippo era di Betsaida, Giacomo di Nazaret, identificato con il cugino di Gesù. Il Veronese riassume in pochi tratti la storia e il temperamento di entrambi.
Filippo, consumato dalla fatica, osserva estatico un angelo dal quale riceve istruzioni, rivelando il suo temperamento contemplativo. Fu lui, infatti, a chiedere a Gesù, nell’Ultima Cena: «Mostraci il Padre e ci basta». Non sappiamo quando lasciò Gerusalemme ma, attorno al 60, si diresse verso la Scizia, una regione molto vasta comprendente l’Europa sud-orientale e l’Asia occidentale, fermandosi a Hierapolis. Qui, secondo la Legenda Aurea, confermata dalle recenti scoperte archeologiche, rimase vent’anni evangelizzando con fervore quella zona pagana, aiutato da due figlie votate alla verginità. Hierapolis era città consacrata ad Apollo, il cui tempio fu sede di un importante oracolo, interpretato da sacerdoti eunuchi. Le conversioni a catena che accompagnarono la predicazione di Filippo toccarono il cuore della moglie del proconsole romano, la quale pure si convertì. Indispettito dal fatto, il proconsole fece arrestare Filippo condannandolo a morte. Il Veronese ritrae l’apostolo mentre imbraccia una croce nodosa: egli, infatti, fu crocifisso a un albero, a testa in giù come Pietro. In terra, accanto ai piedi logorati dal cammino, un piccolo libro: non si tratta del Vangelo, ma della raccolta dei numerosi scritti, come l’Historia Ecclesiastica di Eusebio da Cesarea, che parlano di lui come apostolo guaritore.
Giacomo di Alfeo si piega leggermente verso l’esterno quasi meravigliato dalla santità di quel fratello nella fede. La memoria di Giacomo è registrata in vari modi dal Vangelo e dagli Atti e fa discutere oggi gli studiosi. La tradizione, e il Veronese con essa, lo riconosce in Giacomo di Alfeo, fratello del Signore, che per la sua sapienza e integrità fu chiamato il Giusto. Divenuto capo della comunità di Gerusalemme, lo troviamo accanto a Pietro e Giovanni nel primo Concilio della storia, quello di Gerusalemme, a discutere con Paolo. Il grande libro che porta in grembo simboleggia la lettera che egli scrisse alle dodici tribù disperse nel mondo; una sorta di prima enciclica che, rivolta ai credenti di origine ebraica dispersi nella diaspora, esorta con fervore alla fede, alla preghiera e alla carità. Un bastone spunta da sotto le vesti del santo: fu lo strumento del suo martirio. Sempre Eusebio di Cesarea narra dell’uccisione di Giacomo, avvenuta nell’anno 63 durante una sollevazione popolare istigata dal sommo sacerdote Hanan, il quale per quel delitto verrà destituito. San Girolamo precisa che, dopo essere stato condannato alla lapidazione, fu buttato giù dal pinnacolo del tempio e ucciso da un colpo di bastone da lavandaio alla testa. È vestito di grigio, Giacomo, perché fu pietra di quella Chiesa che si erge nei secoli similmente alla quercia ai piedi della quale egli siede.
Alle spalle dei due si apre un orizzonte infinito, quello di noi che da secoli godiamo del beneficio di questi uomini, la cui vita nell’assoluta semplicità è diventata per molti Parola di Dio.