Felice Carena fede e colore
Felice Carena è pur vivo. Espone alle Gallerie d’Italia a Milano, in Piazza della Scala, fino al 19 settembre. Sembra infatti una mostra organizzata da lui stesso, infaticabile pittore e promotore di scuole di pittura e di esposizioni e partecipante di circoli culturali. Ma il profondo oblio che lo ha cancellato scientemente da questo nostro turbine montante di celebrazioni e di industrie espositive, non lo ha del tutto sommerso. Un istruttivo e bel catalogo dà contezza di un artista inquieto e perennemente in rivolta con se stesso, attratto e sospinto dalla malinconia e dalla vaghezza sognante delle sue idee pittoriche. Una forte indole introspettiva lo ha fin da giovane attanagliato e al contempo isolato dalla quotidiana brace del giorno. Quel suo mistico sentire nella profondità dell’anima le infinite varietà delle forme e dei timbri sonanti del colore lo ha reso ancor più appartato e sofferente.
Già si vede nella sua esangue fisionomia il suo destino che palpita appena dal fondo di un’immagine fotografica. Si evince dalla sua persona l’orizzonte morale molto esigente e toccato dalla grazia del flusso continuo della sua creazione artistica. Fin da giovane doveva sembrargli lontano quel brusio sommesso delle aule accademiche delle Belle Arti di Torino, anzi lo rendeva ancor più schivo e solo. Preferiva la domestica quiete della poesia. Preferiva il vivere appartato, consolato solo dalla meditazione della storia della pittura, quale vivo propulsore della sua anima. Scienza che lo ha orientato per tutta la vita. Il persistere delle sue escursioni nella pittura francese dell’Ottocento e nella tradizione dei maestri italiani è davvero la sua caratteristica nativa. Non c’è stato bisogno di un ritorno all’ordine, avvenuto tra artisti italiani e stranieri, compreso Picasso, per interessarsi della grande lezione di Tiziano, Tintoretto, Tiepolo, restando nella scuola veneta. Carena ha infatti quel vivace istinto di umiltà beata, che lo affranca dal cercare a vuoto. Sa dove mettere le mani e l’occhio. È la sua innata passione per i grandi maestri. Sa che perfino Cézanne e Gauguin, le miglia distanti tra loro, possono dare linfa al suo dramma interiore già sovraccarico di animate figure che lo trascinano nella sua personale battaglia. I suoi personaggi sembrano quasi sortire fuori, a getto continuo, dalla buca del suggeritore nel mezzo al proscenio mentre si appresta dal vivo la commedia umana nel teatro della vita. Dal Simbolismo al Realismo, la teoria dei linguaggi si piega al suo richiamo per effetto di uno sconvolgente ardore creativo e spirituale.
Certamente l’impianto compositivo delle sue prime opere risente della classicità, ma a guardar bene la sua ricerca si concentra anche sull’altro versante della sua spiritualità: i poveri, gli ultimi, le persone del popolo indifeso e avvilito dal lavoro e dalla miseria. Eroi negletti elevati a esempio di virtù cristiana. Per loro sa trarre partito dalla germinante pittura espressionista. Nessuno ha citato Daumier, eppure la sua religiosità la esprime con quei volti contorti dalla fatica di vivere, con quelle arie mute e sgomente, con quel bagaglio di dolore che sopportano a malapena i bisognosi.
Carena è più grande e sincero in opere dal contenuto religioso, si guardi alla Deposizione dei Musei Vaticani, un capolavoro assoluto di arte e di fede tra i maggiori di tutto il Novecento. La sua vocazione al linguaggio pittorico è schietta e comprensibile, raffinata, sia quando si interessa di temi sociali, sia quando rivela la bellezza poderosa dei nudi di donna, come sostiene Elena Pontiggia nel catalogo della mostra. Lui macilento e slanciato con degli occhi che guizzano fuori dalle sue tele, sente che gli è congeniale un altro gigante della pittura di tutti i tempi: El Greco. Si guardi a quale risultato artistico giungano quei modelli di Carena risolti come ombre che fiammeggiano nello spazio che si fa sacro e che incarnano le ombratili figure della sua mente molto prossima alla sensibilità del geniale maestro di Toledo. La vitalità della fede in Cristo sofferente è però il suo più alto vertice artistico e spirituale. Lo dimostrano quei disegni, splendidi capolavori, quali Passaggio del Mar Rosso e Cavalieri dell’Apocalisse, tra le più dolenti opere del secolo scorso. Animate da una visione dirompente del mondo scosso dal fremito della vita e della morte. La religiosità della sua pittura è altrettanto innovativa e risente nella sua ultima fase dell’opera dell’amico Oscar Kokoschka, come del Magnasco. Le sue nature morte sono quasi il controcanto vitalistico di quelle di Giorgio Morandi, costruite con serene e perentorie astrazioni. Mentre le nature morte e tutta la pittura di Felice Carena gridano la tragedia del vivere e l’incanto dei colori forti che oltrepassano la scena di questo mondo, perchè oltrepassano la morte.