Fabriano e il drago (buono) d’Anatolia
Fra le città delle Marche, una regione fra le più appassionanti d’Italia, Fabriano è particolarmente conosciuta per la sua antica arte della carta. Scrivere o disegnare su carta Fabriano ha sempre avuto un carattere di distinzione e di eleganza. «Non si fanno brutte copie sulla mia carta Fabriano!» mi disse una volta mia madre, col suo solito modo impetuoso, strappandomi dalle mani il bel foglio pesante coi margini sfilati su cui stavo scarabocchiando un compito, riempiendo i margini di disegnini. Poi mi spiegò il perché, e mi fece tastare con le dita lo spessore e la qualità della carta.
Non me ne sono mai dimenticata. E due mesi fa proprio nella nobile Fabriano sono andata a un festival molto speciale, festoso e pieno di stimoli e di condivisa allegria. Ho dormito nella foresteria di un monastero, in una stanza alta e squadrata, circondata da piccoli memento di una fede vissuta e amata con trasporto; ho camminato per strade severe, fiancheggiate da palazzi grandi, con rare finestre; ho ascoltato amabili concerti in un giardino di alberi ombrosi, dove tutti sorridevano con amicizia; ho parlato in una chiesa raccolta dove fiorivano dappertutto i miei girasoli, calda di pensieri e di emozioni; ho cenato in un posto squisito, assaggiando un miele celestiale.
E poi ho conosciuto le monache benedettine del monastero dedicato a Margherita, la perla d’Anatolia: una santa giovane e gentile che visse e patì il martirio a quindici anni in Antiochia di Pisidia, alla fine del III secolo. Una comunità che mi ha ricevuto con un affetto fraterno così intenso e gioioso che mi ha avvolta tutta, e ha fatto rinascere ricordi lontani, quando mio padre mi portava a una certa speciale processione del mese di maggio dove – come nelle antiche leggende medievali – tutti noi bambini ricevevamo cestini pieni di petali di rose da spargere davanti alla statua dell’Immacolata, che veniva portata avanti lentamente, sulle spalle di quattro ragazzi sorridenti che mi parevano bellissimi.
Con grande sorpresa ho scoperto nello stemma del monastero il drago armeno, il vishap: non il drago malvagio che la Signora vince e calpesta come nella tradizione occidentale, ma un’entità potente e benefica, simboleggiata nella tipica forma a S nei tappeti armeni, che ha il doppio significato di combattimento contro il male e di fiducia nel Cristo Salvatore. Infatti, sopra la testa del drago c’è una corona, e al di sopra una croce posta di traverso, come una benedizione. E allora mi sono commossa ancora una volta, pensando alla fede limpida di quel pellegrino del X secolo che portò in Italia il corpo della giovane antiochena, e come fu forse attraverso la forza di quella presenza reale che si diffuse il culto della perla d’Anatolia.
di Antonia Arslan