Due cuori aperti al mondo
Ambrogina: la incontrai per la prima volta in Brianza, dove ero andata per fare un intervento alla festa di fine d’anno di una bellissima scuola. Ci furono alcuni bei discorsi in mattinata; parlai anch’io, poi ci fu una lunga pausa - riempita di chiacchiere e di attesa del cibo. C’erano ragazzi e ragazze in ogni angolo; c’era chi prendeva un aperitivo e chi un caffé; c’erano lunghi tavoli coperti di tovaglie bianche, preparati all’aperto per mangiare tutti insieme, disseminati di colorati tovagliolini rossi.
Fu un pranzo pieno di buonumore e di allegria. E anche di piacevoli racconti di sé, e di quel tipo di riflessioni molto serie che nascono come fiori improvvisi quando un gruppo di persone si ritrova a rispecchiarsi in un discorrere comune, a potersi svelare nella parola gioiosa, aggiungendo un discorso a un altro - e a un altro ancora: la stanchezza non si sente, e si vorrebbe continuare per ore...
Nel pomeriggio erano previsti altri interventi. E io stavo seduta in prima fila, un pochino assonnata ma curiosa, con un posto vuoto vicino. Poco dopo l’inizio, uno degli organizzatori mi si avvicinò sussurrando: «È arrivata la signora Ambrogina, la faccio sedere qui, vedrai come è simpatica». E così fu. Anche se quel pomeriggio scambiammo solo poche frasi, il suo sorriso tranquillo mi rimase nel cuore, con un’eco limpida, un lieve rintocco.
E infatti dopo quella prima volta ci siamo riviste, e abbiamo costruito una salda amicizia: lei c’era alla cena dello scorso Natale, ma le nostre strade si sono già in questi anni incrociate molte volte. Il suo nome così vigorosamente lombardo le sta a pennello: riflette in qualche modo la sua essenza, intelligente, curiosa, prensile - e pratica. Ambrogina è una che risolve problemi, affrontandoli prima con lucida decisione; ma è stranamente, squisitamente materna nel suo affrontarli.
Quando penso a lei, me la vedo sempre insieme a suo marito Gianantonio, ed è come se nella mia mente le loro due personalità si completassero per darmi un senso di protezione serena, calda, famigliare - e insieme di coraggio avventuroso, di sfida e di conquista: perché mi appaiono come le due parti di una misteriosa, inscindibile unità che si riflette negli occhi di entrambi, e mi fanno pensare a un bel frutto, un rosso melograno d’Armenia ricco di semi e di sapori.
Sono bravissimi artigiani, e anche inventori, nel loro lavoro; sono stati imprenditori in Brasile, con grande successo; hanno quattro figli, molti affettuosi nipoti e una casa accogliente e piena di calore per tutti. Ma quello che più ci unisce, oggi, oltre alla fede, è un affetto segreto, quello per una piccola patria perduta. Come due ventenni vagabondi e sognatori, sono andati per mesi a insegnare - lavorando insieme a loro - agli allievi sarti e falegnami di una grande scuola nel Nagorno-Karabakh armeno (che chiamano fieramente Artsakh come gli abitanti), ci si sono pure ammalati di Covid e sono diventati fraterni amici di quella povera gente, oggi purtroppo fuggita in massa dal Paese natio.
Ed è proprio pensando a loro che ho capito, in questi ultimi anni, che la vera amicizia non esiste soltanto negli anni di gioventù, come si crede di solito; ma si può davvero trovare, come un dono meraviglioso, in ogni periodo della propria vita.