Dove sei, Annick Dubois de la Cotardière
di Antonia Arslan
Partii per la Germania subito dopo l’esame di maturità. Mi ero iscritta a un corso estivo a Göttingen, una città che praticamente non era stata toccata dai bombardamenti della guerra. La sua università era un gioiello settecentesco, le strade ampie e gradevoli, gli autobus puntuali e frequenti.
Il nostro gruppo di studenti stava alla “Fridtjof-Nansen-Haus”, dal nome del diplomatico norvegese che dopo la Grande Guerra inventò il “Passaporto Nansen” per dare una provvisoria identità riconosciuta ai tanti senza patria che vagavano per l’Europa. Si stava bene in quella villa grandiosa di inizio Novecento, costruita in un bel sobborgo della città da un ricco mercante ebreo, Ferdinand Levin, piena di torri e finestroni goticheggianti, con un’imponente scalinata e un immenso camino fiancheggiato da stemmi impressionanti e araldici leoni.
Venivamo da Paesi diversi ed eravamo felici di stare insieme, entusiasti dell’idea di un’Europa che finalmente voleva unità e pace. Portavamo le spillette europee, ci piaceva Adenauer, il grande vecchio che ci ricordava che anche la politica può essere un’arte. Andavamo molto d’accordo: ci spartivamo un cibo abbondante ma piuttosto modesto, fra cui degli intrugli di latte caldo e cipolle semicrude che ancora riemergono nei miei incubi, ma riuscivamo a chiacchierare un po’ in tutte le lingue, mescolandole variamente, eccettuato il tedesco.
Quella era la lingua da studiare, ma non c’erano tedeschi fra noi, sicché seguivamo diligentemente le lezioni, visitavamo la città, andavamo a musei e concerti, ci spingemmo fino ad osservare – a distanza di sicurezza – la famosa barriera di garitte, muri ed enormi rotoli di filo spinato che divideva le due Germanie, ma non la usavamo per parlare fra noi. E così alla fine imparammo ben poco.
Ma io ero felice e spavalda. Costruii una solida amicizia con Marieta Genovés, la bella spagnola di Valencia che mi capiva al volo e mi rivelava a me stessa, e m’innamorai di Bruno, un giovane milanese che studiava medicina; ma sognavo anche di attirare l’attenzione del bellissimo fisico di ventisei anni che aveva una camera tutta per sé dove offriva cognac e preparava il dottorato. C’erano dei pomeriggi musicali, in cui per la prima volta ascoltai davvero la musica, e mi sentii dovutamente ignorante; e soprattutto mi apersi alla gioia. E tuttavia la persona con la quale ammirazione e fiducia e conoscenza reciproca si completarono in un modo di cui ancora oggi sento nostalgia fu una giovane aristocratica francese, timida e altera, che era là con una sorella molto riservata e un po’ diffidente.
Si chiamava Annick, e attraverso di lei scoprii il mondo della tradizione di Francia, le province monarchiche e una fede antica e rigorosa, mai gridata, profonda. Una volta, parlando con fervore della rivoluzione francese, la vidi rannuvolarsi, e d’impulso le chiesi: «Ma alla tua famiglia com’è andata durante il Terrore?». Lei rispose con un sorrisetto: «Be’, non fu un periodo felice. Tanti di loro morirono», dandomi, in un lampo, l’altra faccia della medaglia. Ma l’altro giorno ho ritrovato un libro che mi mandò, e mi sono improvvisamente ricordata che non le risposi mai: e allora il tarlo malinconico delle occasioni perdute mi ha riempita di nostalgia.